VOLPI&CINI gli ultimi dogi

VOLPI Venezia celebra i suoi due grandi imprenditori, protagonisti della modernizzazione italiana VOLPI gli ultimi dogi 0VENEZIA GGI pomeriggio alle 17,30, alla Fondazione Cini, all'Isola di San Giorgio Maggiore, è in programma una commemorazione di Vittorio Cini, luno dei grandi nomi dell'industria italiana di questo secolo, a vent'anni dalla morte. Partecipano Sergio Romano e Feliciano Benvenuti, presidente della Fondazione. Ricorre in questi giorni anche il cinquantesimo anniversario della scomparsa di Giuseppe Volpi, l'imprenditore che con Cini visse una delle più straordinarie avventure del capitalismo italiano. Di Giuseppe Volpi è stata ristampata di recente dall'editore Marsilio la biografia, che Sergio Romano scrisse, per Bompiani, nel 1979. PER ricordare il 200° anniversario della morte della Serenissima sono state ristampate alla fine dell'estate (ed. Canal & Stamperia) le memorie dell'ultimo doge, Ludovico Manin. Era ricco, ma schivo, timido, titubante, sopraffatto dal peso di un incarico che aveva inutilmente cercato di allontanare dalla propria persona. Fu l'ultimo uomo che ebbe diritto al corno dogale e lanciò zecchini dalla scalinata del palazzo nel giorno della sua elezione. Ma non fu l'ultuhoDdge. Più tardi, dopo un lungo sonno, Venezia rie ebbe altri due, ricchi quanto Ludovico Manin, ma infinitamente più energici, esuberanti, intraprendenti e principeschi: Giuseppe Volpi e Vittorio Cini. Il caso (o l'astuzia della storia) vuole che la città ricordi quest'anno tre morti: la propria (o per meglio dire la scomparsa dell'unica potenza mondiale espressa dalla penisola italiana dopo il crollo dell'Impero romano), quelle di Giuseppe Volpi nel novembre del 1947 e di Vittorio Cini nel settembre di vent'anni fa. E il caso, ancora, vuole che le ricordi nel momento in cui il territorio italiano della Repubblica veneta è nuovamente una delle più dinamiche regioni economiche europee. Volpi nacque a Venezia nel 1877, Cini a Ferrara nel 1885. H primo divenne subito assicuratore, commerciante, promotore di affari nel Veneto e nei Balcani. Il secondo ereditò l'azienda del padre (un'impresa di lavori pubblici), creò la propria e debuttò costruendo banchine nei porti di Genova e Chioggia. Mentre Volpi si dedicava principalmente alla costruzione di centrali idroelettriche, Cini si specializzò in grandi lavori di bonifica e in trasporti marittimi. Il loro incontro risale probabilmente agli accordi per forniture di energia che furono stipulati prima della Grande guerra fra le società di Volpi e quelle di Cini, allora impegnate nella bonifica del Ferrarese. Il «matrimonio» è del 1918. Nel maggio di quell'anno Volpi, Cini, Achille Gaggia c Giancarlo Stucky costituirono la Società Italiana Costruzioni per l'urbanizzazione di Porto Marghera. Negli anni successivi Cini, Gaggia e Volpi divennero gli ^divisibili partner di tutte le maggiori operazioni del gruppo veneziano: produzione e fornitura di energia elettrica, installazioni industriali e lavori portuali, assicurazioni, trasporti, alberghi, servizi finanziari e assicurativi. Il Nord-Est nasce nel primo dopoguerra grazie all'incontro fra tre personalità fortemente complementari. Esistono da allora le condizioni per un polo veneto con un forte retroterra nazionale e grandi ambizioni nelle aree tradizionali dell'influenza veneziana, dall'Adriatico al Mar Nero. Il richiamo a Venezia diventa spesso, soprattutto nelle conferenze e nello stile oratorio di Giuseppe Volpi, un esercizio retorico. Ma commetteremmo un errore se sottovalutassimo l'importanza che questa motivazione ideale ebbe nella sua opera e in quella dei suoi amici. E commetteremmo un errore ancora più grave se ritenessimo che il riferimento a Venezia fu per loro strumentale e promozionale. Tutte le loro iniziative benefiche e culturali - dalla Procuratoria di San Marco alla Biennale, dai grandi restauri alla Fondazione Giorgio Cini, che Vittorio creò in memoria del figlio - dimostrano quale importanza la città abbia sempre avuto nella loro vita culturale e affettiva. 'L'iridòritre tra Volpi 'è^irir 'ebbe luogo sul terreno dei servizi pubblici: infrastrutture, energia, trasporti. Anziché produrre beni di consumo o strumentali - come Agnelli, Pirelli, Marzotto, Falck - si dedicarono principalmente alla fonutura di servizi. La scelta ebbe un'influenza decisiva sui loro metodi di lavoro e sui loro rapporti con i poteri pubblici. Lavorarono con lo Stato perché avevano bisogno di concessioni, licenze, leggi-quadro, regolamenti, crediti agevolati. In un altro Paese, forse, avrebbero potuto mantenere con la politica un rapporto più distaccato e neutrale. In un Paese afflitto da un grave ritardo, povero di capitali e assillato da forti contrasti politico-sociali, dovettero, sin dall'inizio, fare politica. Fino al primo dopoguerra furono certamente giolittiani e in misura minore nittiani. Giolittiani, perché Giovanni Giolitti creò in quegli anni le condizioni politiche e sociali per la straordinaria espansione dell'economia italiana nel primo decennio del secolo. Nittiani, perché Nitti fu particolarmente attento ai problemi infrastnitturali dello sviluppo economico e divenne quindi l'interlocutore necessario di chiunque avesse una posizione dominante nei settori dell'energia e dei trasporti. Le difficoltà cominciarono dopo la fine della guerra quando la legge elettorale proporzionale, approvata nel 1919, portò in Parlamento due forze politiche - i socialisti e i popolari che non vollero collaborare con la vecchia classe dirigente alla ricostruzione del Paese. Nel momento in cui l'Italia avrebbe potuto cogliere i risultati della vittoria e riprendere la strada della espansione, Cini, Volpi e l'intera classe economica italiana si trovarono alle prese con una situazione caotica e inafferrabile, continuamente percorsa da umori e conati pseudorivoluzionari. Nel movimento fascista videro due aspetti positivi: in primo luogo una reazione nazionale al modo in cui la sinistra stava screditando la vittoria e i suoi protagonisti; in secondo luogo la possibilità di un «ritorno all'ordine». Come Giolitti e molti altri esponenti della società italiana, Cini e Volpi dovettero sperare che l'alleanza con Mussolini, alle elezioni del 1921, avrebbe «costituzionalizzato» i fascisti e ne avrebbe fatto una forza moderata, capace di tenere a bada la sinistra massimalista e bolscevica. Quando le circostanze e, in particolare, l'atteggiamento del Partito popolare, decretarono il fallimento della strategia di Giolitti, furono «giolittiani» nell'unico modo possibile a un uomo d'affari nell'Italia degli Anni Venti: all'interno del regime. Il loro obiettivo rimase lo stesso: costitu- zionalizzare il fascismo, costringerlo a spogliarsi della sua componente rivoluzionaria e accettare le leggi dello sviluppo economico. Per raggiungere lo scopo puntarono su Mussolini, vale a dire sull'uomo che era meglio in grado di controllare e frenare le componenti radicali 'e tìnticapitaliste'del movimento. Pagarono un alto prezzo in termini di libertà e dignità - troppe uniformi, troppe camicie nere, troppe cerimonie di regime - ma continuarono a essere ciò che erano stati negli anni precedenti: due fra i maggiori protagonisti di quel processo di modernizzazione che era iniziato alla fine del secolo precedente. Si ritrovarono così a lavorare con buona parte della classe dirigente giolittiana e nittiana. Vi è nella storia della modernizzazione italiana molta più continuità di quanto gli storici politici non amino riconoscere. Lo dimostra il fatto che quasi tutti i migliori tecnocrati cresciuti all'ombra di Nitti - primo fra tutti Alberto Beneduce - ebbero una parto determinante nelle maggiori iniziative economiche pubbliche del periodo fascista. Cini e Volpi avevano interessi comuni, erano legati da una forte amicizia e tennero verso il regime, sostanzialmente, lo stesso atteggiamento. Ma con stile diverso. Erano ambedue intelligenti, ironici e smaliziati. Ma Volpi amò, molto più di Cini, la teatralità della vita pubblica ed era quindi maggiormente incline ad accettare incarichi politici come il ministero delle Finanze, la presidenza della Confindustria e, dopo lo scoppio della guerra, la direzione della commissione italo-croata. Cini, invece, preferì dedicarsi alla ge- stione delle imprese del gruppo. Ma non potè sottrarsi ad alcuni incarichi pubblici. Nel 1937 divenne commissario generale dell'Esposizione Universale che avrebbe dovuto svolgersi a Roma nel 1942. Fu una scelta particolarmente felice. Non era soltanto un finanziere. lira anche, grazie alle esperienze fatte nel Ferrarese e a Porto Marghera, uno straordinario organizzatore di lavori pubblici. La sua grande idea un quartiere nuovo e autonomo, alle porte di Roma - fu in parte realizzata e resta una delle migliori iniziative urbanistiche italiane di questo secolo. Più tardi Mussolini cercò di coinvolgerlo nella organizzazione delia guerra e pensò a lui, probabilmente, quando ebbe l'idea di un «dittatore dell'economia» che avrebbe avuto in Italia il ruolo di Albert Speer in Germania. Lo costrinse finalmente, dopo molti rifiuti, a diventare ministro delle Comunicazioni nel grande rimpasto del febbraio 1943. E chiamò al governo, in tal modo, il solo uomo capace di descrivergli brutalmente, nelle settimane seguenti, lo stato fallimentare delle strutture logistiche del Paese. Quando capì che Mussolini non lo avrebbe ascoltato, Cini si dimise. Era il 24 giugno 1943. Da allora Mussolini disse di Cini, seccamente, che era stato il rappre¬ sentante del «disfattismo» nel governo. Il 23 settembre, due settimane dopo l'armistizio, Volpi e Cini furono arrestati. Il primo fu rinchiuso a via Tasso, il secondo a Dachau. Il motivo e l'accusa erano gli stessi. Per i fascisti intransigenti i due dogi veneziani erano la personificazione di quel capitale finanziario che aveva corrotto il regime privandolo della sua originaria socialità; per i gerarchi tedeschi, probabilmente, erano soltanto ostaggi, «polizze d'assicurazio ne», pedine da negoziare per un generoso riscatto. Furono trasferiti in una clinica e più tardi liberati. Ambedue, dopo altre peregrinazioni, finirono in Svizzera dove attesero la fine della guerra e la revisione del giudizio di epurazione che era stato pronunciato a Roma, nei loro confronti, tra il '44 e il '45. Volpi fu in parte assolto, in parte amnistiato; Cini fu esonerato dal Chi veneto e riabilitato dall'Alta Corte di Giustizia. Letti oggi tali giudizi appaiono misure di saggezza e confermano quanto sarebbe ingiusto applicare alla storia dello sviluppo nazionale i criteri con cui viene convenzionalmente giudicata la storia politica della nazione. Nessuno, dopo la giustizia sommaria dei primi mesi, aveva il diritto di ignorare ciò che i grandi modernizzatori veneziani avevano fatto, tra l'inizio dell'età giolittiana e la caduta del fascismo, per la loro città e por il Paese. Volpi fu seppellito come un doge nella Chiesa di S. Maria dei Frari. Cini visse altri trent'anni durante i quali fondò nell'isola di S. Giorgio una «Serenissima repubblica delle lettere». E non dimenticò mai l'amico morto. Quando seppe che lavoravo a mia biografia di Volpi mi disse, a commento della loro amicizia: «Gli amici hanno sempre ragione)». E aggiunse, con affetto e ironia: «Soprattutto quando hanno torto». Sergio Romano Da Giolitti a Mussolini, con un solo fine: affermare l'idea di un capitalismo innovatore Si incontrarono subito dopo la prima guerra mondiale: il Nord-Est nacque allora grazie alle loro personalità fortemente complementari LA STAMPA imprenditori, protagonisti della mir Nella foto a sinistra Giuseppe Volpi, a destra Vittorio Cini. Sopra il titolo un'immagine dell'isola di San Giorgio Maggiore, dove ha sede la Fondazione Cini