LO SCUOLABUS NELLO STAGNO di Anacleto Verrecchia

LO SCUOLABUS NELLO STAGNO LO SCUOLABUS NELLO STAGNO Morte, colpa e sopravvissuti IL DOLCE DOMANI Russell Banks traduzione di Massimo Birattari Einaudi pp. 235 L. 26.000 IL DOLCE DOMANI Russell Banks traduzione di Massimo Birattari Einaudi pp. 235 L. 26.000 I sono libri intriganti, sui quali è difficile dire qualcosa di intelligente o anche solo di appropriato. Il dolce domani (ottima la traduzione di Massimo Birattari) dell'americano Russell Banks è uno di questi. Nemmeno le presentazioni offerte dal risvolto e dalla quarta di copertina riescono a sbilanciarsi oltre l'intreccio. E sono davvero curioso di sapere che cosa è riuscito a cavarne fuori Atom Egoyan, che ha portato sullo schermo il romanzo. Banks è uno scrittore esperto. Vicino ai sessant'anni, ha alle spalle una decina di opere, due delle quali, Tormenta (1995) e La legge di Bone (1996), già pubblicati dal prestigioso editore torinese in traduzione italiana. Ma insegna anche «letteratura creativa» a Princeton; sicché, quando si comincia a leggere il suo ultimo lavoro, vien subito la tentazione di considerarlo come illustrazione di un metodo, un esercizio di scrittura. Le premesse paiono esserci tutte. Un inizio in s'ordina, giocato sui particolari minuscoli e apparentemente insignificanti, l Russell Banks L'impalpabile storia di Russell Banks da cui è stato tratto il film, di Egoyan gche sembrano strizzare l'occhio da un lato a certe pagine di J. D. Salinger (c'è persino una figura minore che nel nome ricorda un classico dell'autore del Giovane Holden, il racconto lungo Zooey, dal quale però si dissocia subito in maniera indiretta ma riconoscibile) e, dall'altro, a taluni minimalisti oggi un po' démodé. E poi uno svolgimento della trama basato sulla tecnica del punto di vista: dapprima Dolores Driscoll, la guidatrice dello scuolabus che, per evitare un ostacolo improvviso, esce di strada e precipita in uno stagno, causando la morte di molti bambini; e quindi Billy Ansel, un padre che nell'incidente ha perso i figli; Mitchell Stephens, un avvocato metropolitano che non crede nelle disgrazie ma solo nelle responsabilità civili e penali; e Nichole Burnell, una splendida quattordicenne sopravvissuta ma costretta per sempre su una sedia a rotelle, depositaria di un segreto tremendo che con l'accaduto non ha nulla a che fare ma che per vie tortuose riuscirà a restituire a Sam Dent (paesino dal nome bizzarro nello Sta+o di New York ove si svolge la vicenda) la volontà e la forza di ritornare a una vita normale. In chiusura, quasi come ulteriore elemento pacificatorio, riprende il filo della narrazione Dolores Driscoll, compattando, almeno formalmente, un intreccio che dà sovente l'impressione di potersi slabbrare. Ecco, il problema di II dolce domani sta forse in questo mio ruvido tentativo di sintesi. Una storia che si avvia come racconto interiore, per svilupparsi poi, sia pure con tocchi leggeri e sapienti, in territori legali che mettono obliquamente in luce piccoli e grandi segreti, fino al più grande e torturante della piccola Nichole, che la sofferenza improvvisa rende capace, a dispetto della sua età, di capire che cosa veramente vuole la gente, che cosa occorre fare e come farlo, con una sorta di imprevedibile «colpo narrativo» che sbilancia in mystery il romanzo. Il difficile, per il lettore (ma forse anche per l'autore) è comprendere dove alla resa dei conti si debba porre l'accento, quale peso abbiano in ultima analisi, nel quadro complessivo, gli squarci di storie minori che gradualmente si offrono: la relazione clandestina di Billy Ansel con Risa; il dramma di Mitchell Stephens con la figlia drogata, probabile vittima dell'Aids; la sofferenza e il senso di colpa di Dolores, verso la quale la vita è già stata avara, regalandole un marito paralitico che dalla sua carrozzella balbetta poche parole carismatiche ma al limite della comprensibilità. O il senso profondo va invece cercato nella rivelazione dell'inenarrabile segreto di Nichole? O magari ancora, su tutt'altro versante, nella soluzione quasi gratificante del dramma, dove la comunità ritrova la vita allegra di tante piccole cittadine della provincia americana, nel cuore delle quali ciascuno si tiene però dentro le proprie sofferenze, unica realtà non monetizzabile e non spendibile dell'esistenza? Si ha l'impressione che in questo romanzo ci sia, contemporaneamente, troppo e troppo poco; senza peraltro riuscire a decidere se tale sensazione sia una virtù o un difetto dei narratore, un obiettivo perseguito o un esito non voluto. Ruggero Bianchi ITALIANI: PIÙ' POPOLO DI NAVIGATORI CHE DI EROI STORIA DEI VIAGGIATORI ITALIANI dal XII al XIX secolo Gaetano Branca Druetto Editore pp. 334 L. 22.000 UESTO libro è un distillato, anzi il distillato di un distillato. L'opera di Branca fu pubblicata nel 1873, ma ora Flaminia Mancinelli ne ha fatto una libera esposizione e l'ha ridotto in un elegante volumetto. Druetto Editore pp. 334 L. 22.000 Il primo viaggiatore italiano, a quanto pare, fu il minorità Giovanni di Piano Carpini. Si trattava di uno di quei missionari, come scrive la Mancinelli, «che i papi mandarono in Asia con il difficile incarico di convertire i capi delle orde mongoliche al cristianesimo e di fare dei Mongoli un potente alleato dei Cristiani contro i Turchi». L'intrepido frate partì nel 1246 e ritornò dopo sedici mesi. A bisaccia vuota, naturalmente, perché i mongoli non vollero saperne né di cristianesimo né di conversioni. Però non lo trattarono male: oltre a fornirgli un salvacondotto per il viaggio di ritorno, gli regalarono un abito di lino e una pelliccia di volpe. Ci si chiede se i l fi^fi^j j Dal minorità Giovanni in terra mongola a Marco Polo: come fi^fffi^B il Papa e Venezia j i l i d Bj aprirono la via dell'Asia Marco Polo pcristiani avrebbero fatto la stessa cosa con un monaco asiatico o se non lo avrebbero piuttosto scorticato. Eppure i mongoli avrebbero potuto insegnarci molte cose. Ecco come li descrive il Carpini: «Sono obbedientissimi ai loro capi, poco amanti dei litigi e delle risse; non sono ladri, giacché lasciano i loro averi sui carri all'aperto, dividono liberamente con i più bisognosi le scarse vettovaglie, sopportano tranquillamente le privazioni, sanno stare allegri anche quando sono digiuni, si aiutano e non si disprezzano vicendevolmente». Molto spazio, come è giusto, viene dedicato ai viaggi di Marco Polo, nella cui famiglia doveva forse essersi incarnato il moto perpetuo. Già il padre Niccolò e lo zio Matteo, infatti, avevano fatto un lungo viaggio in Asia e ne erano ritornati dopo diciannove anni. Ad attenderlo a Venezia Niccolò trovò un figlio di vent'anni, Marco, con il quale i due fratelli Polo si rimisero in marcia nel 1271, nuovamente diretti in Asia. Questa volta il viaggio, che ebbe per meta soprattutto la Cina, durò venticinque anni. Quante scarpe avrà consumato quel terzetto di giramondo? Probabilmente più di un intero esercito. l i pMa i Polo, se non altro, si muovevano sulla terra ferma, con i piedi all'asciutto. Ancora più ardimentosi, se possibile, furono i viaggatori per mare. Già nel XII secolo gli italiani, circumnavigando l'Africa, avevano raggiunto l'Estremo Oriente. E di nuovo trovia¬ mo in prima fila i missionari, fra cui va ricordato il francescano Oderico di Pordenone. Durante il suo viaggio, che si concluse dopo quattordici anni, egli visitò l'India e la Cina. Non si creda, però, che i Polo e i missionari siano stati i primi in assoluto a mettere piede in India e in Cina. C'erano già stati i greci e i romani. Chi non sa della spedizione di Alessandro Magno? Inoltre Megastene, che fu ambasciatore greco presso il re indiano Candragupta, fornì molti ragguagli sulla filosofia orientale. In epoca romana, i rapporti tra Oriente e Occidente divennero molto stretti, come dimostra, fra l'altro, il ritrovamento di monete romane in India e anche in Cina. Perfino in epoca cristiana si aveva una buona conoscenza della profonda sapienza orientale, come si può vedere dal trattato De mori- bus Brachmanorum attribuito a Sant'Ambrogio. E indubbio, tuttavia, che siano stati i viaggiatori italiani a riallacciare i rapporti tra l'Europa e l'Asia. Questo libro lo documenta ampiamente e avvalora anche la tesi che gli italiani sono stati per davvero un popolo di navigatori e di scopritori. Dubito fortemente, invece, che siano stati anche un popolo di santi e di eroi. Alcuni vorrebbero togliere a Cristoforo Colombo la gloria di aver scoperto l'America, avvalorando la favola che i primi a giungervi sarebbero stati i vichinghi. Davvero? Ma se è per questo c'erano stati sicuramente anche i tonni! Di solito l'alambicco di Flaminia Mancinelli distilla bene, però deve avere qualche buco che non filtra nel modo dovuto: «Dettò le sue memorie al segretario di papa Eu¬ genio ry, certo Poggio Bracciolini» Santi numi, Poggio Bracciolini è un umanista noto all'universo e non un «certo». A parte questo, il libro è piacevole, scorrevole e pieno di curiosità. Io l'ho letto in Liguria, vicino a quella Noli da cui salpò Cristoforo Colombo. Così, standomene sulla terra ferma, seguivo con gli occhi della fantasia gh audaci navigatori che solcavano mare e sfidavano l'ignoto. Sì, que sto libro fa sognare. Mi sia permessa, a questo punto, un'annotazione. Direttrice della casa Luigi Druetto editore è, se non sbaglio, la splendida signora Elisabeth von una zu Stolberg. Be ne, per una donna così uno sareb be disposto anche a sfidare il mare infuriato e perfino a fare naufra gio. Anacleto Verrecchia