La crisi economica va alle urne di Luigi Grassia

La crisi economica va allo urne La crisi economica va allo urne Un oppositore favorito alle Presidenziali REPORTAGE LA TIGRE AZZOPPATA SEUL DAL NOSTRO INVIATO L'e^^(^^^Bfi8n^ft5Sft ha scoperto l'ansia. I portafogli azionari, come ora sanno i risparmiatori a Seul, possono prendere scoppole da compromettere la vecchiaia (qui l'Inps è un miraggio e per farsi l'equivalente di una pensione non c'è che il fai-da-te). Il posto di lavoro non è più sicuro: passare dal capitalismo autoritario e assistito a un vero mercato libero significa dire addio all'impiego garantito. E la Sud Corea si abbassa a chieder prestiti all'Fmi, che imporrà dure condizioni per restituirli. E' la fine di un'epoca d'oro? Se cosi sentono, gli elettori potranno sfogare la loro insoddisfazione nell'urna creando presidente il 18 dicembre un esponente storico dell'opposizione, che già trionfa nei sondaggi. Sarebbe la prima volta che il candidato governativo non vince per «mandato del Cielo». L'uomo della continuità, il delfino del presidente uscente Kim Young Sam che però rischia una storica sconfitta, si chiama Lee Hoi Chang. I suoi guai sono cominciati quando un giornalista tv gli ha chiesto «quali sono i suoi tre principali desideri?» e lui ha risposto, il volto illuminato in primo piano, in estasi, citando tre cose che riguardavano il benessere suo e della sua famiglia. E basta. Un triplo autogol per cui l'aspirante leader - colpito anche dallo scandaletto dei due figli cui ha evitato di straforo la naja - è crollato dal primo al terzo posto nei sondaggi. Cose che capitano in una democrazia compiuta. Ora il «front runner» si chiama Kim Dae Jung, sostenuto da un altro oppositore di lungo corso, Kim Jong Pi]. Balza agli occhi una seria difficoltà nel raccontare la politica sudcoreana: la confusione fra i troppi Kim (non va dimenticato il leader comunista di Pyongyang, Kim Jong II). A disboscare la giungla dei Kim ci aiuta il ministro Hong Sa Dug, un'autorità in qualche modo imparziale: occupa infatti la curiosa poltrona (forse senza pari nel mondo) di rappresentante istituzionale dell'opposizione in seno al governo. «Questa campagna elettorale - dice - è partita come le solite, col delfino del Presidente strafavorito. Ma poi ha azzoppato Lee la candidatura a sorpresa di Rhee In Je, un giovane esponente del suo partito. Rhee propone una linea mediana fra quella riformista, ma assai cauta, di Lee e quella più progressista di Kim Dae Jung». Questo Kim, un «liberal», propone di dare un colpo all'autoritarismo tradizionale passando dal sistema presidenziale a quello parlamentare; chiede di scarcerare i detenuti per reati di opinione (che peraltro Seul nega esistano); e promette una libertà sindacale completa, finora mai del tutto realizzata. Quanto ci sia da fare in questo senso testimoniano davanti alla cattedrale cattolica Myeong Dong gli operai di cinque o sei industrie in lotta. I protestatari di Seul vengono a manifestare qui dove la polizia ha ritegno a mostrarsi violenta. I lavoratori hanno rizzato delle solide tende coperte da striscioni e cellophane. Racconta un gruppo: «Nella nostra fabbrica siamo in lotta da 113 giorni. Quando ci riunivamo ci attaccavano con gli idranti e coi bastoni». Arrabbiati come sono non voteranno neppure per Kim Dae Jung ma per il radicale Kwon Young Kil. Costui è un po' il Bertinotti locale. «E' il leader del sindacato semi-legale Kctu che a cavallo delle feste di Natale ha scatenato uno sciopero generale, riuscendo a bloccare una legge che facilitava ulteriormente i licenziamenti» dice Lee Won Duck, dell'Istituto coreano per gli studi sul lavoro. «Kwon ha conquistato consensi fra gli operai ma isolato com'è non può farli pesare stringendo quelle alleanze fra candidati (io mi ritiro, tu in cambio se vinci mi associ al governo) che probabilmente si riveleranno decisive per l'elezione». C'è un motivo molto valido se tutti i candidati seri in Sud Corea sono ostili ai «rossi»: l'incombere ad appe¬ na 70 km da Seul del regime nordcoreano: stalinista, militarista, alla fame ma - forse - con la bomba atomica. L'accordo dell'altroieri a New York sulla via della riunificazione non cambia le cose all'interno, perché «i rapporti con Pyongyang dipendono dalla situazione internazionale, non da chi diventa presidente» dice Rhee Bong Jo, delegato alle trattative. Per cui il dibattito elettorale si focalizza sull'economia e su come completare l'ardito programma di riforme che Kim Young Sam ha potuto avviare, ma non terminare. Come primo passo di ogni riforma politica e morale, Confucio suggeriva al duca di Wei di «correggere i nomi»: far corrispondere alle parole il loro vero significato. Il saggio si riferiva in concreto all'incesto di Nan Tse, la moglie del duca che andava a letto col figlio. La prescrizione di Confucio fu che il padre facesse effettivamente il padre, la madre la madre, il figlio il figlio. Kim Young Sam ha provato a sanare due incesti sudcoreani: quello tra militari e po¬ tere e quello tra politica e affari. Sul fronte numero uno ha trionfato. Vanta d'essere il primo capo di Stato civile a Seul. I generali, ormai, stanno al loro posto (fanno solo i soldati, come vuole il loro «nome»). Anzi due di loro, gli ex presidenti Roh Tae Woo e Chun Doo Hwan, hanno subito il processo e la condanna. Sul fronte della corruzione, invece, i risultati sono stati così così. Kim Young Sam ha imposto (anche a se stesso e al suo partito) nuove, severissime norme moralizzatrici. E le brighe sciolte ai giudici hanno scoperchiato scandali a catena come quello dell'acciaieria Hanbo. Inutile raccontare i dettagli, ma è stato come aprire un vaso di Pandora, uno sconquasso dopo l'altro. Tanto che la reazione del pubblico non è stata «bravi, pulizia è fatta»; piuttosto si è diffusa la sensazione che non ci sia limite al marcio. In ottobre lo stesso figlio del Presidente, Kim Hyun Chul, è stato condannato a tre anni per corruzione ed evasione fiscale. Infine c'è un terzo tipo di incesto sudcoreano, distinto dalla corruzione: il sostegno alla luce del sole delle casse pubbliche alle grandi industrie private: per farle crescere sul mercato internazionale (con sgravi fiscali, sussidi diretti e credito facile) o per salvarle nei momenti di difficoltà, «socializzando le perdite» a spese del contribuente. «In Corea del Sud spiega il prof. Thomas Hongsoon Han dell'università Hankuk - l'economia si fonda sui "chaebol", una trentina di conglomerati la cui crescita è stata anche funzionale alla corruzione elettorale, perché in cambio di finanziamenti e leggi di favore le grandi imprese erano in grado - meglio delle piccole e medie di pagare politici e funzionari». La severa legge sui finanziamenti elettorali introdotta da Kim Young Sam ha reso più difficile questo scambio di favori. L'ammissione della Corea del Sud all'Ocse, sempre voluta da Kim, ha aperto il Paese alla concorrenza internazionale. Una cosa, spiega Koh Seung Beom dell'ufficio programmazione del ministero dell'Economia, «necessaria alla Corea a lungo termine, ma che nell'immediato ha prodotto una bilancia dei pagamenti in rosso di 15 imbardi di doDari». Intanto il costo del lavoro è salito a livelli europei e i chaebol «delocalizzano» gli impianti all'estero (fino in Uzbekistan). Per farlo, i giganti si indebitano (la Daewoo per il 352% del capitale, la Hyundai per oltre il 500%), alcuni di loro nel '97 sono falliti e Kim, col solito sistema, ha dovuto salvare a spese del contribuente il colosso ferito Kia. Le banche sono in grave sofferenza, il tasso annuo di sviluppo è calato dal 10% a un 6,5% che entusiasmerebbe l'Europa ma qui è appena sufficiente a pagare gli interessi sui debiti interni ed esterni. Dice un proverbio coreano: «Quando si sbaglia a abbottonare un bottone si sbaglia a abbottonarli tutti». Seul ha puntato tutto sulla crescita ininterrotta (contro l'attuale moda occidentale del «downsizing»): e ora la bolla scoppia. Luigi Grassia

Luoghi citati: Corea Del Sud, Europa, New York, Uzbekistan