Parte al rallentatore l'Europa del lavoro

Intesa a Lussemburgo con pochi fondi, un appello alla flessibilità e le 35 ore fuori dalla porta Intesa a Lussemburgo con pochi fondi, un appello alla flessibilità e le 35 ore fuori dalla porta Parte al rallentatore l'Europa del lavoro I Quindici puntano sullaformazione e su piani nazionali LUSSEMBURGO DAL NOSTRO INVIATO Posti di lavoro non ce ne sono, ma nemmeno potevano essercene. Impegni sì, ma ce ne potevano essere ben di più. Bisogna accontentarsi, perché l'Europa è un esercizio lungo e faticoso. Prodi ha ricordato che solo pochi anni fa i primi documenti sulla convergenza monetaria erano «assai più indistinti» di questo sull'occupazione; ma quando «si comincia, poi i progressi si fanno». Per la moneta è stato così; per il lavoro, vedremo Ma certamente, qui a Lussemburgo, i Quindici dell'Unione europea un inizio di politica comune per l'occupazione l'hanno costituito. Alla fine un accordo s'è firmato, minimo, ma era il massimo che si poteva fare nella dimensione politica di quest'Europa dove tutto si decide all'unanimità di quindici realtà così diverse, geograficamente e politicamente. Anche all'interno dello stesso Stato, come la Francia, dove la coabitazione tra Chirac e il governo socialista di Jospin rivela sulla questione lavoro tutte le sue spine. Il governo ha fatto la legge per le 35 ore; Chirac ieri l'ha definita un «miraggio di sperimentazioni azzardate che potrebbe gravemente limitare l'efficacia della lotta contro la disoccupazione se praticato al di fuori di un'intesa tra le parti sociali». Niente di nuovo. I due alla fine sono comparsi insieme e Jospin ha rivendicato alla sua iniziativa («Accolta all'inizio con scetticismo») la conclusione «positiva» di questo summit. Il totem delle 35 ore di orario settimanale non compare nel documento finale. Ma si parla di riduzioni e di «annualizzazione» del tempo di lavoro, della riduzione degli straordinari, del part-time. E soprattutto della formazione professionale continua perché è chiaro che la nuova economia richiede un nuovo lavoro, o più lavori nel corso di una vita, la disponibilità a cambiare, la possibilità di farlo attraverso - appunto - la formazione. Ed è per questo che, alla fine, le cose fondamentali del documento di accordo riguardano proprio la formazione. Entro cinque anni gli Stati membri dell'Unione devono tentare di portare ad almeno il 20 per cento la quota di disoccupati avviati a corsi di formazione. L'obiettivo era del 25 per cento, ma i tedeschi (e non solo) si sono opposti. Gli spagnoli (che hanno la disoccupazione al 20 per cento) hanno ottenuto una deroga non scritta perché sanno di non poter raggiungere l'obiettivo. Le altre due cifre rimaste nel documento finale sono quella di sei e dodici mesi, termini entro i quali i disoccupati giovani (meno di 25 anni) e adulti dovranno ricevere attraverso lo Stato una chance: o un posto di lavoro, o un corso di formazione che li avvìi al lavoro. Ogni Stato dovrà scrivere (con cifre) i suoi propri obiettivi in «piani nazionali» dei quali dovrà rendere conto di fronte al Consiglio dei ministri dell'Unione. Non ci sono sanzioni per chi sgarra (come avviene invece per le questioni mone¬ tarie) e per questo non si può parlare dei «parametri di Lussemburgo» (auspicati dai francesi) da paragonare a quelli di Maastricht. Non c'è in bilancio - come voleva il cancelliere Kohl una sola lira (o ecu, o euro, come volete) per sostenere l'occupazione. Le vecchie politiche di spesa pubblica sono finite nel cestino, la regola as¬ sunta è quella di migliorare Yemployability (come recita in continuazione Tony Blair) e cioè la capacità del singolo di incrociare la richiesta del mercato del lavoro, adattandosi o inventandosi un nuovo ruolo. In sintesi, ridurre le rigidità e aumentare la flessibilità, come dice anche il documento congiunto Italia-Gran Bretagna-Svezia, dove l'oriz- zonte delle 35 ore su cui si è salvato il governo italiano sembra annebbiarsi in lontananza. L'ha confermato Prodi, di cui il portavoce britannico ha rivelato un inatteso e particolare feeling con Blair: «Il termine temporale è molto avanzato, 2001, e comunque subordinato all'intesa con le parti sociali». Di soldi si parla in un capitolo collaterale, l'impegno della Banca europea per gli investimenti. Dieci miliardi di ecu (circa 20 mila miliardi di lire) a favore delle piccole e medie imprese, nuove tecnologie e reti transeuropee che dovrebbero mobilitare investimenti per circa 60 mila miliardi. Inoltre aiuti in crediti per le piccole e medie imprese capaci di creare posti di lavoro: 450 milioni di ecu in tre anni, circa 900 miliardi di lire. Ma non è la cosa più importante. Ai diciotto milioni di disoccupati l'Europa manda a dire che non c'è da sperare in vecchi rimedi, che la cosa più importante è la crescita economica, ma non basterà a salvarli. Dovranno sapersi «adattare alla mondializzazione», come ha detto Chirac. L'Europa può dare loro solo un «clima» che incoraggi «gli individui a sfruttare pienamente le loro energie creative». Coraggio. Cesare Martinetti UN CONTINÈNTI IN CERCA PI POSTI Lo disoccupazione dei 15 Paesi dell'Unione europea è attestata al 10,6%, oltre il doppio degli Stati Uniti e il triplo del Giappone, --.-a ;^"L i' L'Ue prevede di ridurre il tasso di disoccupazione al 7% entro il 2002^'. r : ... >:»»: :■:<■■ COl W* <^ASF SVIZZERA |gaM G. BRETAGNA OLANDA SVEZIA AUSTRIA DANIMARCA GERMANIA FRANCIA ITALIA BELGIO SPAGNA 5,2 5,6 DISOCCUPAZIONE IN PERCENTUALE DELLA FORZA LAVORO, 1997 MEDIA UE 6,8 7,1 7,7 UH STATI UNITI 4,7% 11,8 12,5 12,8 GIAPPONE 3,4% 11113,4 —^J20,8 FONTE: EUROSTAt 0CSE, THE EC0N0MIST Il premier francese Lionel Jospin con il suo collega olandese Kok e quello britannico Tony Blair Sotto, da sinistra, Massimo D'Alema e Giuliano Amato