la missione fallita del vivandiere
L'OPERAZIONE la missione fallita del vivandiere Preso, provò a convincere Farina senza successo Itti i L'OPERAZIONE LIBERAZIONE MANCATA Cm ROMA " E' un altro sequestratore di Giuseppe Soffiantini in carcere, arrestato quasi un mese fa, rimasto finora nell'ombra per via del silenzio-stampa. Si chiama Franceso Zizi, ed è un altro sardo nato trentotto anni fa a Orune, in provincia di Nuoro - trapiantato nell'alta Maremma toscana, la terra dove hanno vissuto organizzando rapimenti i due latitanti che tengono tuttora in ostaggio l'imprenditore bresciano, Giovanni Farina e Attilio Cubeddu. Zizi è uno dei «vivandieri» della banda, arrestato la sera di lunedì 20 ottobre, poche ore dopo il blitz sull'autostrada Roma-L'Aquila e la cattura di altri quattro sequestratori. Lo hanno preso insieme al fratello Giovarmi a Pari, il pugno di case a metà strada tra Grosseto e Siena dove abita la famiglia di Farina. Ad inchiodarlo, i risultati di mesi di indagini svolte dalla polizia, prima che la situazione precipitasse con la finta consegna del riscatto, la sparatoria, la morte dell'ispettore dei Nocs Samuele Donatoni. L'omicidio dell'ispettore è del 17 ottobre, e dai tabulati del telefonino utilizzato da Farina - già individuato come uno dei carcerieri di Soffiantini - risultano due telefonate con Zizi a cavallo di quella tragica sera; una il 14 ottobre e una il 18. Sono i giorni in cui l'«ala militare» della banda - Mario Moro e i due romagnoli Sergio e Broccoli - rimane bloccata nella macchia intorno ad Avezzano, in attesa di contatti con i complici. Poi la polizia arresta Agostino Mastio, il quale accetta di fare da esca e fa arrestare, sull'autostrada, gli assassini di Donatoni. Nel frattempo la polizia ha controllato il traffico dei cellulari, ed è saltato fuori il ruolo di Zizi, fermato insieme al fratello Giovanni. Sono le ore concitate di quel lunedì notte, quando centinaia di uomini si concentrano nelle campagne intorno a Montalcino, alla ricerca di Soffiantini, e in tv viene dato l'annuncio di una liberazione imminente che invece si allontana col passare della notte e dei giorni successivi. Un mese dopo, da un'udienza davanti al tribunale della libertà a Firenze, vengono alla luce altri retroscena su Zizi e sui tentativi fatti per arrivare alla prigione dell'imprenditore bresciano. Zizi è un pastore sardo dalla scorza dura, che non si impressiona più di tanto di fronte alle contestazioni degli investigatori. A malapena declina le sue generalità, e dice di non sapere niente. Ma due giorni dopo accetta una mediazione: andare nei boschi pressoché impenetrabili dove sono nascosti i rapitori, tentare un contatto con Farina e cercare di convincerlo a liberare l'ostaggio. Gli investigatori non possono seguirlo in questa missione: la macchia che costeggia il fiume Ombrane, dalle parti della stazione di Salceta, è talmente fitta che è impossibile seguire una persona senza essere notati. E far scoprire che dietro al bandito ci sono gli «sbirri» significa mettere ad elevatissimo rischio la vita dell'ostaggio. Inoltre Zizi non è un «pentito», ha solo accettato di provare a convincere Farina ad arrendersi. Il pastore si inoltra nella macchia il 22 ottobre, il mercoledì nel quale - a sera - la fibrillazione tra i cronisti accampati davanti alla questura di Grosseto in attesa di notizie, sale alle stelle. «Siamo all'epilogo», si dice, e c'è chi s'apposta all'ospedale in attesa di veder arrivare l'ambulanza con Soffiantini. Nessuno sa che è partito un emissario, il quale non sa esattamente dov'è la prigione ma forse è in grado di rintracciare l'ostaggio e i latitanti che lo custodiscono. Ma la missione fallisce. Dopo più di ventiquattr'ore di attesa, Zizi rie- merge dalla macchia. Non porta buone notizie. Dice di aver trovato Farina (non ha visto, però, Soffiantini prigioniero), di averci parlato, ma non l'ha convinto a rilasciare l'ostaggio. La «collaborazione» del pastore finisce lì, Zizi si richiude nel suo mutismo. Il 27 ottobre scatta il provvedimento di fermo per concorso in sequestro di persone, convalidato dal gip tre giorni più tardi. I poliziotti avevano comunque controllato a distanza le mosse del sardo, cercando di circoscrivere l'area in cui s'è mosso. Si ributtano nella macchia e in un paio di giorni arrivano all'ultimo «covo», ormai abbandonato, dei carcerieri di Soffiantini. Tra le località di Repitose e Fosso del Lupo, segnate solo sulle carte militari, gli investigatori arrivano ai capanni dove ci sono i resti di una cucina da campo, barattoli di provviste, la batteria di un'auto uti¬ lizzata per ricaricare i telefonini. I letti sono due porte stese a terra con sopra due materassi, e poi targhe di auto, scarpe, sacchi pieni di spazzatura. Disseminate intorno al rifugio, alcune tagliole per catturare animali. Ma Soffiantini e i suoi carcerieri se ne sono andati, pronti ad allacciare nuovi contatti, con altri complici. Un mese più tardi, quelli vecchi sono quasi tutti in carcere; i due carcerieri restano identificati e inseguiti da un ordine di cattura frutto di mesi di indagine; altri elementi sono stati raccolti: ma manca ancora la liberazione dell'ostaggio, per mettere la parola fine a questa maledetta storia. Giovanni Bianconi E' un altro pastore sardo trapiantato in Maremma Raggiunse il superlatitante, ma non vide l'ostaggio Giuseppe Soffiantini ln alto, un posto di blocco nel Grossetano durante le ricerche dell'industriale
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