Alleati di Saddam sul Nilo di Igor Man

Alleati di Saddam sul Nilo Alleati di Saddam sul Nilo Una sofisticata strategia del terrore Nelle foto di questa pagina e di quella1 - a fianco soccorsi alle vittime dell'attacco terroristico di Luxor [FOTO REUTER-ANSA] gli Stati Uniti han cercato di rovesciare, rispolvera il vecchio copione. Consapevole di apparire ai diseredati del mondo arabo, ' ai suoi stessi sudditi fiaccati da un embargo impietoso (ogni anno, in Iraq, muoiono 150 mila bambini per mancanza di alimenti, di medicinali di base), alla stregua di un nuovo Nasser, egli si rivolge loro col linguaggio clerico-maoista di Khomeini. Tentando una operazione intrisa di utopia: sempre fallita; cioè saldare i nazionalisti laici (e «progressisti») con i fondamentalisti religiosi (e «conservatori»). Si veda cosa sta accadendo nell'Algeria dei generali laici e nella stessa «cartesiana» Tunisia. Il solito copione, ma allora, il mondo arabo, di buon grado o suo malgrado, era incartato negli Stati Uniti e la recita del¬ l'assiro-babilonese non funzionò. Oggi è diverso: la tensione è alta come sette anni fa, ma gli arabi (quelli che contano) non sono più con gli Stati Uniti. Il fallimento della conferenza del Qatar che attraverso la scorciatoia del business avrebbe potuto riprendere per la collottola il cosiddetto «processo negoziale» fra il debilitato Arafat e l'erratico Netanyahu, è sintomatico. La strage di Luxor è un tragico «valore aggiunto» a una crisi non ancora irreparabile ma che minaccia conseguenze nefaste. Gli arabi che contano non sono più con gli americani non perché amino Saddam ma semplicemente perché hanno paura. Hanno paura di passare per servi di coloro, gli Usa, appunto, che gli integralisti indicano alle masse arabe co¬ me «complici» di Israele. Sappiamo che gli Stati Uniti non sono complici di chicchessia tuttavia non appaiono in grado, ora come ora, di consigliare per il meglio il primo ministro israeliano. Il quale (come già faceva Shamir) proclama di volere la pace praticando, in fatto, una politica a dir poco contraddittoria che sinora sembra aver attinto due risultati: il pericoloso congelamento degli accordi di Oslo - la spaccatura della società israeliana. (Tutte le più grandi firme d'Israele, e i vecchi soldati che credettero in Rabin, e vorrebbero tuttora mutare il suo sogno-progetto in realtà, non si stancano di denunciare quella che definiscono «una devastante crisi di identità nazionale»). Si torna immancabilmente, così, all'eterno punto di par- COSTUI minacciava di punire il taccagno Kuwait che surrettiziamente pompava petrolio irakeno, ma fu subito chiaro che l'Emirato (già provincia irakena sino a quando le potenze coloniali non ridisegnarono quel deserto incredibilmente ricco di greggio), era solo un falso scopo: Saddam mirava al bersaglio grosso: quegli Stati Uniti («complici del nemico sionista») che dopo averlo usato contro l'Iran lo avevano gettato via nel cestino della carta straccia. Voleva semplicemente sfidarli: per umiliarli. Va detto subito che Saddam, campione del rischio malcalcolato, invase il Kuwait convinto che gli americani non si sarebbero mossi sicché, alla fine, tutto sarebbe tornato come se nulla fosse accaduto. Secondo il modulo arabo bos ilha: letteralmente, «baciarsi le barbe». Nella lunga storia mediorientale aveva sempre funzionato: nel Settembre Nero del '70 i raìss si abbracciarono e baciarono (sulla barba) risolvendo, all'araba, quella sanguinosa vertenza. Tuttavia, sette anni fa, né l'accomodante re Fahd, né il sanguigno Mubarak, né lo scaltro Assad erano in condizione di accettare il salvifico bos ilha: il presidente Bush s'era spinto oltre il parapetto della diplomazia, bisognava marciare. In nome del diritto internazionale (ma se il Kuwait anziché petrolio avesse prodotto broccoli?), e nell'interesse dell'Occidente e dei moderati arabi, gli Stati Uniti marciarono. E fu la Guerra del Golfo, conclusasi con la «vittoria senza trionfo» di Schwarzkopf. L'aviazione americana ricacciò uno Stato postindustriale qual era sul punto di diventare l'Iraq negli stenti dell'economia agricola, ma non riuscì a sbarazzarsi di Saddam, come sappiamo. Perché i Gì furono bloccati a ottanta chilometri da Baghdad? Perché l'Armata Rossa, creatrice dell'Iraq postmoderno, non poteva subire quest'onta. E in quel tempo l'Armata Rossa teneva in ostàggio Gorbaciov che serviva a Bush: per salvarlo il presidente Wasp dovette rinunciare alla preda: a Saddam, il presidente cheap. E così, oggi, il dittatore dimezzato che vanamente, durante sette interminabili anni, tenza. Allo stallo in Palestina. Certo, un attacco aereo americano contro la «cassaforte dei gas tossici» di Saddam (sempreché le bombe intelligenti riescano a centrarla evitando il massacro di sette anni fa nel bunker pieno di civili, non di ordigni bellici), oltre a dare l'illusione di aver ridimensionato 'Saddam, funzionerebbe come diversivo. Metterebbe tra parentesi il problema vero: la Palestina. Il tempo necessario, secondo i calcoli di Netanyahu e di alcuni «falchi» americani, per sbarazzarsi di Arafat. Come ha scritto Thomas L. Friedman, Arafat è un simbolo e la sua keffia una bandiera: «Di tutto quello cht i palestinesi non hanno e che vorrebbero avere». Ma, Arafat o non Arafat, il popolo palestinese avrà sempre bisogno di un simbolo. Che, invece della keffia a grani neri e bianchi del vecchio Abu Aramar, potrebbe essere il mitra insanguinato d'un hezbollah ovvero il tritolo legato al torace dei terroristi adolescenti di Hamas, votati al martirio. La strage di Luxor preoccupa perché in Medio Oriente tutto si tiene. La jamaa jslamyia l'ha voluta proprio nel momento in cui gli Stati Uniti cercano un pretesto valido per dare una lezione a Saddam (che, in ogni caso, non sarà definitiva ma addirittura gioverà al dittatore), e nel contempo cercano di ricucire i rapporti con quei Paesi che furono con loro contro il «ladro di Baghdad». E l'ha voluta non già nella presunzione di assestare una mazzata irreparabile al potente dispositivo militare e poliziesco dell'Egitto (gli islamisti sanno che sul campo la vittoria gli è negata), l'ha voluta per ricordare ai vari raìss, ricchi e meno ricchi, che in Medio Oriente a fare e disfare le fortune dei potenti sono stati sempre i miserabili. E' stato scritto che quel che accomuna le masse arabe (sempre e troppo sottovalutate), dal Golfo all'Atlantico, passando per il Nord Africa, è la miseria e Maometto. Se aggiungiamo la Palestina alla fame e all'Islam, avremo la miscela invero esplosiva d'una torva bomba a tempo. E non sembrano esserci, ahimè, artificieri capaci di disinnescarla. Almeno nell'immediato. Igor Man Un avvertimento ai regimi arabi perché non ascoltino ,o richieste americane La miseria, Maometto e l'eterno problema della Palestina La miccia è accesa