Prove generali di presidenzialismo di Filippo Ceccarelli

F IL PALAZZO Prove generali di presidenzialismo IO ce l'ha dato - aveva gridato al Palasport Gigi Proietti chiudendo la campagna elettorale di Rutelli - e guai a chi ce lo tocca». Tra Napoleone e l'Onnipotente, per quanto sgorgato dal cuore di un attore, per giunta comico, il richiamo di Proietti certifica meglio di tante valutazioni politologiche un clima e un orizzonte che si riscontrano, oltre che a Roma, con Rutelli, nella Napoli di Bassolino come nella Venezia di Cacciari. A occhio (cioè basandosi necessariamente sugli exit poli) questi risultati fanno pensare alle prove generali di un presidenzialismo, anche tendenzialmente plebiscitario, che non solo non ha riscontri nella storia elettorale italiana, ma che di qui a qualche mese - Bicamerale permettendolo - potrebbe essere previsto e tra un paio d'anni addirittura applicato su scala nazionale. Dunque varrà la pena di notare come vittoriosi a fatica nel 1993, i sindaci-presidenti Rutelli, Cacciari e Bassolino abbiano oggi tutti e tre ottenuto un trionfo. In altre parole: chi vince una prima elezione diretta, se non fa nel frattempo cose tremende, è come se ne avesse già in dotazione una seconda ancora più sostanziosa. Un terzo mandato, d'altra parte, è vietato dalla legge. Ma due vittorie di seguito, almeno in Italia, e con quelle percentuali, rappresentano comunque una tale anomalia da suscitare sgomento. Come hanno fatto a stravincere in quel modo? Dove sta l'inghippo? Nessun trucco - almeno nel senso dell'inganno. Il plebiscito municipale è merito della stabilità garantita dal sistema elettorale, e dei risultati amministrativi conseguiti dal sindaco e dai suoi assessori che hanno avuto il tempo di consolidare e allargare il consenso originario. Si può aggiungere che un bel contributo l'hanno dato le opposizioni, mettendo in pista figure sbiadite destinate alla più prevedibile sconfitta. E tuttavia l'impressione è che il raddoppiato successo di Bassolino, Cacciari e Rutelli dipenda più di tutto dal loro èssere - loro come persone e come leader - i più evoluti e i più adatti alla politica quale si presenta oggi con le sue esigenze di visibilità, le sue strategie comunicative, le idiosincrasie per gli apparati, le suggestioni personalizzatissime. In qualche misura si può perfino azzardare che loro stessi contribuiscono a sagomare la nuova politica. La vittoria al primo turno, ad esempio, oscura qualsiasi ruolo dei partiti, silenziosamente sostituiti da liste «usa-e-getta» o da stabili squadre di professionisti della comunicazione. Alleggeriti di strutture (e quindi pure di bocche da sfamare, con le relative grane), i sindaci hanno scommesso sulla velocità dei messaggi, l'immaterialità dei simboli e la potenza sempre più ripetuta della loro immagine e notirietà. Quest'ultima l'hanno custodita così gelosamente, in campagna elettorale, da rifiutare dibattiti con gli antagonisti, che in questo modo sono apparsi ancora più sconosciuti. Baciati dai sondaggi e adorati dai media, in fondo hanno cominciato a vincere molto prima del tempo. Piccolo capolavoro strategico, la «vittoria annunciata» ha permesso a Rutelli di concedersi distaccate e cavalleresche valutazioni del tipo: «Questa campagna è noiosa perché mi ritrovo di fronte avversari inconsistenti». A Bassolino, intanto, facevano propaganda pure gli avversari che in un pamphlet lo dichiaravano alleato di «quei misteriosi organismi di orientamento finanziario e di pressione politica come la Trilateral, il Bilderberg e il Council of Foreign Relations». Filippo Ceccarelli emj

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