Don Diana pagò uno sgarbo
Napoli: «Ucciso perché custodì armi di un clan rivale». Polemica tra il vescovo e Cordova Napoli: «Ucciso perché custodì armi di un clan rivale». Polemica tra il vescovo e Cordova «Don Diano pagò uno sgarbo» Pentito getta ombre sull'omicidio NAPOLI. E' stato il simbolo delle vittime innocenti di una camorra spietata o sanguinaria. Ma adesso che finalmente i suoi assassini sono stati scoperti, un'ombra si allunga sulla figura di don Giuseppe Diana, macchia la memoria del parroco ucciso il 19 marzo del '94 nella sua chiesa a Casal di Principe, nel Casertano. Parla un pentito, fa nomi e disegna scenari, ma riferisce anche il movente, che sostiene di aver appreso dal mandante del delitto. Chi gli ordinò di eliminare don Poppino, gli spiegò che il sacerdote andava punito anche per aver custodito una partita di armi per conto del clan dei Gasatosi. Anzi, per averla restituita al gruppo sbagliato, quando nell'organizzazione scoppiò una guerra di supremazia. Sono sei lo ordinanze di custodia cautelare firmato dal gip Maria Aschettino, sulla base dolio rivelazioni di Giuseppe Quadrano, il collaboratore di giustizia che organizzò l'omicidio e che ha indicato ai magistrati della Dda i killer di don Diana. A decidere la fino del parroco della chiesa cii San Nicola fu Nunzio De Falco, «il Lupo», che con i fratelli si era messo alla guida di un gruppo di «scissionisti». Una banda pronta, alla mola degli Anni 90, a contendere alla famiglia di Francesco Schiavone, che i suoi uomini chiamano Sandokan, la leadership del clan dei Casalesi. Con il pentito, De Falco giustificò l'uccisione di don l'oppino, sostenendo che con l'agguato si orano raggiunti tre obiettivi: vendicare la morte di un affiliato al loro gruppo, del quale il parroco non aveva voluto celebrare i funerali; attirare su Casal di Principe, con un delitto così eclatante, un ampio spiegamento delle forze dell'ordine che avrebbe ostacolato le attività di Sandokan; punire il prete per quello armi riconsegnate agli Schiavone. La storia, il pentito la racconta così: fucili e pistole erano stati affidati al parroco da Vincenzo De Falco, fratello di Nunzio, e da un altro esponente del clan dei Casalesi, prima che la frattura nell'organizzazione desse il via alle ostilità. Ma quando «il Lupo», a guerra scoppiata, andò a chiederne la restituzione, il sacerdote gli avrebbe risposto di aver già ridato le armi agli Schiavone, con i quali peraltro lo legava una lontana parentela. Una calunnia, il tentativo di giustificare un delitto odioso? In una conferenza stampa, con il procuratore Agostino Cordova e i pm della Dda, si sottolinea che quelle del pentito sono notizie «de relato», ovvero apprese indirettamente da Quadrano e per le quali al momento non c'è riscontro. Di sicuro, la circostanza sarà argomento di interrogatorio per Nunzio De Falco, a-restato giovedì in Spagna dove ha trascorso lunghi periodi di latitanza e da dove dirige un fiorente traffico di droga con l'Italia. Ma tra gli inquirenti c'è anche chi sottolinea i rischi di una manovra. «In un'organizzazione criminale - spiega il pm Federico Cafiero De Raho - può accadere che il mandante di un omicidio indichi un movente non vero per indurre chi deve compiere un delitto ad attuarlo senza discutere o per giustificarne l'attuazione». Chi non ha dubbi e parla di «dichiarazioni infamanti sul conto di un martire della camorra» è il vescovo di Caserta, Raffaele Nogaro, protagonista negli ultimi giorni di una polemica a distanza con il procuratore Cordova su mia presunta scarsa presenza della magistratura nella provincia. Il vescovo ricorda l'impegno di don Peppino (promotore di un duro documento contro la camorra) e torna ad attaccare gli inquirenti: «La dichiarazione del pentito andava controllata con opportuni riscontri prima di essere divulgata». Mariella Cirillo I funerali di don Giuseppe Diana, sacerdote anticamorra, ucciso 3 anni fa
Luoghi citati: Casal Di Principe, Caserta, Italia, Napoli, Spagna
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