«la mia vita da preda dell'Anonima»

Parla il leader del comitato antirapimenti: padre e zio furono presi dai banditi e lui è un possibile obiettivo Parla il leader del comitato antirapimenti: padre e zio furono presi dai banditi e lui è un possibile obiettivo «la mia vita da preda dell'Anonima» «Ma ho un piano per sconfiggere la piaga dei sequestri» TORTOLI» (Nuoro) DAL NOSTRO INVIATO Chissà come ci si sente, ad essere una preda, a vivere con il timore che, un giorno, uno sconosciuto incrociato per strada ti catturi e ti strappi un pezzo della tua vita. Perché lo sai che quel frammento chiamato «prigionia» non ti apparterrà mai, e più vorrai dimenticarlo più il suo ricordo ti tormenterà, e non è facile dire, come ha fatto Silvia Melis, «il capitolo sequestro è chiuso». E non si chiude mai, neppure per lei, che l'altra sera, dopo ore di euforia, ha ceduto e ieri è stata ricoverata in una clinica di Cagliari, così ha disertato il sopralluogo alla tenda-prigione, e la Messa di ringraziamento nella cattedrale di Sant'Andrea, a Tortoli. Chissà come si può vivere con la preoccupazione di esser presi. «Beh!, di questo rischio me ne frego proprio. Se mi prendessero, i miei parenti sanno di non dover pagare: lo facessero, li diseredo. E non pagherei neppure prendessero mio figlio di 9 anni: soltanto che se lo facessero, andrei io a cercarli...». Giorgio Mazzella ha 50 anni, il fisico atletico, il piglio dell'imprenditore di successo. Con i fratelli è proprietario di tre villaggi vacanze, sulla costa, dietro Capo Bellavista, e dell'aeroporto di Arbatax, dove ogni anno transitano 50 mila italiani, austriaci, svizzeri e tedeschi. E' una magnifica preda per i cacciatori di uomini, e lui lo sa. Qualcuno ci ha provato, ma lui ha anticipato tutti, ha fatto denuncia e ora gli altri sono dentro, e non è gente di mezza tacca, si tratta di Nicolò Cossu detto «Cioccolata» e di Tonino Crissantu, nipote di Graziano Mesina, che un tempo fu il re del Supramonte. Ora Mazzella ha creato il comitato contro i sequestri, vi ha coinvolto sindacati e associazioni, ha molte idee e pochi dubbi su come combattere il fenomeno. Ed è sicuro di quello che dice. Per esempio: «Credetemi, per Silvia non è stato pagato nessun riscatto». Non è uno che parla per sentito dire. Suo padre Attilio fu sequestrato due volte, e non è mai tornato. E ostaggio è stato fatto anche un suo zio. Quando ricorda il calvario del padre, soltanto il respiro che si fa affannoso denuncia l'emozione ma il tono della voce non muta. «Era il 1950, quando lo presero per la prima volta. Mio padre era venuto a Tortoli da Ponza, con un veliero che trasportava carbone. Aveva, come si dice, fatto fortuna con il commercio del legname. Quel giorno lo presero e lo gettarono nell'auto, lui si ribellò, riuscì a fuggire e gli altri vennero arrestati». Sembrava un incubo passato, Giorgio Mazzella e il fratello Pietropaolo scelsero di camminare da soli, cominciarono a lavorare nell'industria alberghiera. «Nostro padre con disprezzo diceva che eravamo dei camerieri». Un quarto di secolo più tardi, a Mamoiada, Attilio Mazzella fu catturato per la seconda volta. «Ci arrivò una sua lettera, dopo una deci- na di giorni: due pagine nelle quali pregava mio fratello Marcello e nostra madre di fare il possibile per pagare e indicava anche il nome di uno che avrebbe potuto aiutare a trovare il denaro. Quelli volevano 3 o 400 milioni. Ma lui era uno tutto d'un pezzo, e siccome ero io che potevo raccogliere i soldi, capii che intendeva dire l'esatto contrario». E cominciò il tempo dell'attesa, il tempo del nulla. Vennero versati 200 milioni d'acconto, ma l'ostaggio non tornò. «Arrivò uno scritto sulla testata di un giornale con la data. Era diretto a me: "Giorgio, non fare così, altrimenti mi cavano gli occhi". Mi parve strano che avesse ceduto, e andai da un perito calligrafo: "Non è di suo padre". Mi rivolsi a un altro, per un controllo incrociato: confermò che non l'aveva scritta mio padre. E io indagavo, stavo per chiudere il cerchio, per quello loro volevano concludere. Cambiarono atteggiamento, maltrattavano gli emissari, arrivò un secondo scritto, falso anche quello. Capimmo che era finita. Ma io cercai ancora, avevo in mano tutte le tessere, chiesi di incontrare quelli che sospettavo. Quando me li trovai davanti, discutemmo, litigammo, fu una cosa abbastanza primitiva: eravamo tutti giovani, sui 25. Dissi che mio padre doveve tornare entro dieci giorni, quelli si dettero alla macchia. Erano i tempi in cui c'erano più magistrati e l'uno pestava i piedi all'altro. Non successe niente, ma dopo un anno, qualcuno telefonò a mia madre offrendole, per 100 milioni, il cranio del babbo. Cinque anni più tardi, quando l'inchiesta tini nelle mani del giudice Lornbardini, quei tre che avevano indicato vennero arrestati. E uno era innocente, mi scusai con lui. Ma gli altri no, gli altri erano Armino Mele, che è ancora in carcere, e Gianni Cadimi, ucciso in un conflitto a fuoco con i carabinieri». Il sequestro è davvero un male che quando ti cade addosso, come ha osservato Silvia Melis, non sai più che. cosa fare? No, ruggisce Giorgio Mazzella, occorre reagire. E parla della possibilità di «distruggere il fenomeno in pochi mesi». Un sogno? «Un progetto. Ma occorre fare cose concrete. Per esempio, eliminare la rivalità fra le varie forze di polizia, dare la certezza alla gente che quello che racconterà agli inquirenti rimarrà anonimo. Come fa a parlare, sapendo che il suo nome prima o poi verrà reso pubblico?». Già, c'è sempre qualcuno che vede o che ascolta: come, forse, è accaduto anche nel sequestro di Silvia, perché quella tenda trovata a mezzo chilometro dalla strada che collega Nuoro a Orgosolo era piantata su un terreno di proprietà privata. E' stata l'ultima prigione, lì, in mezzo ai cespugli di corbezzolo e lentischio, ed era possibile vedere le luci del monte Ortobene, quello alle spalle di Nuoro che dista 13 chilometri. E forse sono quelle le luci di cui ha parlato Silvia. «Alla gente della Barbaglia e dell'Ogliastra va fatto capire che il rapimento mina la sua terra, la rende più povera, la taglia fuori dal mondo. Se si fa un conto molto più allargato fra Sardegna, Toscana e Umbria, di quanti ruotano attorno a questa che chiamano "industria del sequestro", si arriva a 5-700 persone, latitanti compresi. Che se è vero che i latitanti sono il coperchio per ogni sequestro, lo è altrettanto che potrebbero essere invogliati a rientrare nella società. Come? Con un premio, che so?, offrendo loro 300 milioni, per esempio, che servirebbero per le spese della loro famiglia alla quale, credetemi, tiene anche l'animale più feroce. E se rifiuta, allora il premio, raddoppiato, potrebbe esser pagato a chi lo farà catturare. No, non è una taglia. E poi, gli emissari: c'è tutta una categoria che vive di questo, da quando la legge ostacola il pagamento. Perché la legge sul blocco dei beni non vuol dir nulla. E' una cosa finta. Costoro, questi emissari, non vanno criminalizzati: devono essere messi in galera perché sono complici che vivono di questo. Le pene? Il sequestro è uri reato contro il patrimonio, lo è contro la persona. E così, se l'ostaggio viene ucciso, o violentato, allora sarà l'ergastolo». Vincenzo Tessandori Per vincere bisogna eliminare la rivalità tra forze di polizia e garantire alla gente dell'interno che collabora di restare anonima p J| 6 fi Propongo un premio ai latitanti che si costituiscono e l'arresto per gli emissari: c'è una categoria di persone che vive di questo lavoro !| J La tenda dove è stata tenuta sequestrata Silvia Melis La tenda dove è stata tenuta sequestrata Silvia Melis La tenda dove è stata tenuta sequestrata Silvia Melis

Luoghi citati: Mamoiada, Nuoro, Ogliastra, Orgosolo, Sardegna, Toscana, Umbria