Romano gli equivoci dell'utopia sionista
IL CASO. Nel nuovo libro, l'ambasciatore rivendica il diritto alla critica sullo Stato ebraico IL CASO. Nel nuovo libro, l'ambasciatore rivendica il diritto alla critica sullo Stato ebraico Romano, gli equivoci dell'utopia sionista BA parola sionismo compie cento anni. Anche se i filologi non l'attribuiscono al fondatore del movimento, l'ungherese Theodor Herzl, ma al giornalista Nathan Birnbaum, la sua data di nascita si può far coincidere con il convegno di Basilea del 1897 che Herzl promosse «per la creazione in Palestina di una sede nazionale destinata al popolo ebraico». La parola antisemitismo entra nel vocabolario almeno vent'anni prima. Appare per la prima volta negli scritti di Wilhelm Marr, autore di La vittoria del giudaismo sul germanesimo e fondatore di una «Lega degli antisemiti» nel 1879. La prima parola, anche storicamente, è provocata dalla seconda, e non viceversa. Senza la piaga dell'antisemitismo, il sionismo avrebbe avuto ragioni assai meno forti; c'è una stretta relazione fra i due fenomeni, quasi un corto circuito. E' sufficiente per sospettare oggi come antisemita ogni giudizio critico sull'esperienza di Israele? Lo storico riconosce l'imbarazzo che nasce da quel corto circuito; ma non si lascia intimorire. Anche perché, nel caso specifico, non è lontanamente sospettabile di equivoci. Sergio Romano cinque anni fa aveva rievocato la buia storia dei falsi Protocolli di Sion, un infame documento fabbricato dalla polizia zarista per giustificare i pogrom antiebraici. Oggi pubblica una Lettera a un amico ebreo, in uscita da Longanesi, che, per la sua franchezza, potrà suscitare qualche dissenso nei più osservanti. Ma Romano ci avverte che la storia è per sua natura laica, e si riserva di giudicare, respingendo «l'aspirazione dell'ebraismo intransigente a confiscarla». L'amico ebreo, cui l'autore si rivolge, ò in realtà la sintesi fra due amici: l'economista Roger Weiss, che ha scoperto per gradi la propria identità ebraica, e l'ex diplomatico Vittorio Se gre, che l'ha difesa sempre. «Della loro amicizia - dichiara Romano nella Premessa - ho approfittato per dire cose che a qualche ebreo - non a loro, spero - risulteranno sgradite». Non sono cose da poco. L'autore, con l'occhio imparziale ma non freddo - dello studioso, mette in causa il concetto stesso di genocidio, così come viene oggi inteso dalla parte più intransigente della comunità ebraica. Il genocidio, per Romano, deve essere visto come un fatto storico, analizzato nelle sue cause e responsabilità, collocato nella prospettiva del tempo. «C'è invece la tendenza a canonizzarlo, a farne una categoria permanente della storia». E lui non l'accetta. Lo studioso che difende la laicità della ricerca può anche capire la ragione passionale che sta alla base di certi atteggiamenti; per sé rivendica una ragione razionale, che chiede di fare luce in quel buco nero del nostro secolo. L'antisemitismo, ci ricorda, non va confuso con la giudeofobia, di matrice religiosa, che il cristianesimo si è trascinato dietro fino alle soglie del Concilio Vaticano II, e solo gli ultimi pontefici hanno condannato. L'antisemitismo, così come si forma nell'Ottocento, ha le sue radici nelle dottrine sulla razza, nel pensiero di personaggi che oggi ci sembrano insospettabili, come Renan o Darwin. Fu antisemita, per molto tempo, la sinistra; lo fu Marx, discendente di rabbini; lo fu più radicalmente Proudhon, l'autore della celebre frase «la proprietà è un furto», che scriveva sul suo taccuino: «L'odio per l'ebreo dev'essere un articolo della nostra fede politica». Sono molti gli equivoci dell'antisemitismo, che Romano porta alla luce. Ma non lo sono meno quelli del sionismo: nato senza l'appoggio della maggior parte degli ebrei. Il convegno fondatore di Herzl dovette tenersi a Basilea perché la comunità ebraica di Monaco rifiutò di ospitarlo. La terra promessa degli ebrei d'Europa non era la Palestina, ma l'America: dove emigrarono a milioni. E quanto alla Palestina, Herzl sbagliò i calcoli: credeva di portare «un popolo senza terra in una terra senza popolo», ignorando l'esistenza degli insediamenti arabi. L'utopia di Herzl, secondo lo studioso di storia, divenne realtà per cause indipendenti dal suo progettista. E il genocidio, con tutti i suoi orrori, vi ebbe un ruolo determinante. Ma lo Stato che ne uscì risultò assai diverso da quello che il profeta del sionismo aveva pensato. Doveva essere laico e pacifista; oggi lo studioso vede in Israele una democrazia militare dove hanno un ruolo determinante i partiti religiosi. Perfino la parola sionismo sembra diventata per molti una brutta parola: per gli arabi, per le sinistre internazionali, per l'Onu, per gli stessi ebrei osservanti. Si possono dire queste cose? Romano si rende conto che le persecuzioni e l'Olocausto hanno reso più difficile il discorso; ma con l'amico ebreo tanto vale essere sinceri: perché «grazie al cielo esiste ancora un Paese dove è possibile "parlar male" degli ebrei, ed è naturalmente Israele». Giorgio Calcagno «Bisogna leggere l'Olocausto alla luce della storia» Herzl sognò un Paese laico e pacifico: oggi è militare e religioso «Grazie al cielo esiste un Paese dove si può parlar male degli ebrei: Israele» Soldati israeliani davanti al Muro del Pianto Da sinistra Sergio Romano (autore del libro «Lettera a un amico ebreo») e Theodor Herzl (disegno)
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