Il nuovo ventre di Milano

Gli «autonomi» sono già 105 mila mentre anche nel terziario sono in calo costante i dipendenti «garantiti» Il nuovo ventre di Milano Una città invisibile che produce nei sotterranei Gli «autonomi» sono già 105 mila mentre anche nel terziario sono in calo costante i dipendenti «garantiti» MILANO DAL NOSTRO INVIATO Il ventre di Milano è lì, accanto al Naviglio Grande, in un sotterraneo di via Villoresi da cui udiamo levarsi un misterioso sempiterno gorgoglìo, come se tutte insieme centinaia di voci mormorassero una prece senza riuscire a unirsi nel coro. L'intero palazzo è da poco adibito a sede della Abacus, società specializzata in sondaggi e indagini di mercato. Quattro piani all'insù per gli uffici e uno sotto terra per accogliere gli intervistatori telefonici che sonderanno l'Italia sulla bontà dei bastoncini di pesce surgelati e sull'esito della corsa per il Campidoglio. Eccoli, gli abitanti del nuovo ventre di Milano: siedono curvi tra banchi gialli e azzurri, indossano una cuffia microfonata e agitano le dita alternativamente sui tasti del telefono e del computer, mentre sul video scorre la litania di questo moderno catechismo mercantile. «Buongiorno, questa è una indagine di mercato, accetta di rispondere? Le premetto che si tratta di una intervista anonima. Lei conosce già i nuovi ammorbidenti concentrati? Se la risposta è affermativa...». Ogni turno dura tra le due e le tre ore, pagate all'incirca diecimila lire l'una. Sul muro un avviso scritto col pennarello: «Se conoscete ragazzi diplomati che vogliono venire a lavorare in Abacus per il turno D/S portateci nominativo e numero telefonico». D/S naturalmente vuol dire domenica sera, quando ò più facile trovare a casa campioni di consumatori che non siano solo pensionati o casalinghe. Al quarto piano Nando Pagnoncelli, faccia da bravo ragazzo che imn si monta la testa anche se la multinazionale Sofres ha appena rilevato la Abacus confermandolo amministratore delegato, descrive le nuove gerarchie sociali metropolitane. «Il nostro settore è in forte espansione e si concentra soprattutto a Milano. Tra tutti fattureremo 700 miliardi e intorno a noi ruotano migliaia di^ree lance. Vuole che le faccia il conto della Abacus, che è solo una società di dimensioni medie benché le proiezioni elettorali televisive l'abbiano resa tra le più famose?». Il conto è la fotografia perfetta di un'azienda terziaria che - scusate l'orrendo neologismo - esternalizza le sue attività per crescere e prosperare. Dunque: «Cinquanta sono i dipendenti diretti. I dodici postini che curano il mailing col nostro aiuto si sono costituiti in cooperativa. Poi c'è la gran massa degli esterni cui apriamo una posizione Inps e chiediamo la partita Iva perché esercitano un lavoro autonomo. Trecento intervistatori telefonici; novecento intervistatori face toface; centocinquanta codificatori di questionari; poi le società che trasferiscono i risultati su supporto magnetico, e ancora...». Moltiplichiamo il tutto per Nielsen, Ims, Gb, Doxa, Eurisko, Explorer, Demoskopea, Cinn e chissà quante altre. Sommiamoci la galassia delle vendite porta a porta, dei concorsi a premi, dei servizi al marketing. Proviamo anche solo a immaginare il retrobottega di un business pubblicitario che vale ormai diecimila miliardi l'anno. Il risultato alla fine è di quelli che cambiano l'idea stessa del lavoro nella prima città compiutamente post-fordista d'Italia. E' uno di quei casi in cui le aride cifre rivelano una metamorfosi negli stili di vita, nelle speranze, nelle aspettative giovanili: all'Inps di Milano, l'aprile scorso, risultavano iscritti come «liberi professionisti» e «lavoratori autonomi con contratto di collaborazione coordinata e continuativa» 105 mila persone, il 38% delle quali giovani. Certo, l'esercito del lavoro dipendente garantito nell'industria e nel terziario resta ancora più vasto, ma non poi di tanto e comunque in calo costante. Questo ventre di Milano 1997, inteso come luogo invisibile dove l'organismo sociale produce seleziona e assimila le sue risorse vitali, non somiglierà per nulla all'antico ventre miserabile e colorato della Parigi di Emile Zola. Ma ne riproduce modernamente la frenetica provvisorietà, entusiasta e disperata. La spinta al lavoro in proprio non abolisce di certo il lavoro salariato ma ne destabilizza le certezze di stabilità, im- ponendo l'ideologia dell'autoimpresa e dell'autoflessibilità. Sicché lo incontri dappertutto, muovendoti per la città dei ristoranti, degli stores, delle agenzie, questo senso perenne di provvisorietà, dai gradini bassi ai gradini alti della gerarchia sociale. Proprio in basso, nel sotterraneo dove puoi lasciare la macchina se fai la spesa al supermarket, trovo il distinto parcheggiatore col Barbour e il telefonino, a disagio non solo per l'umiltà della mansione ma perché neppure gli sembra di lavorare: «Mi chiamo Marco Solari, licenziato a poco più di trent'anni dal gruppo Abete. Adesso una cooperativa di posteggiatori mi dà un milione e 400 mila al mese - tutte in nero - per star qui a far niente dalle 9 di mattino alle 7 di sera. Invece mio fratello, che ha studiato comunicazione visiva all'Itsos, aspetta da sei mesi di essere pagato come figurante - quelli che battono le mani - a Telemontecarlo». Non sono certo dei barboni, i due fratelli Solari, finiranno per mettersi in proprio anche loro, magari con i risparmi di famiglia. Ma il fatto curioso qui a Milano è che questo senso di provvisorietà non lo percepisci solo nei servizi arretrati, come può essere la gestione di un parcheggio, ma fin sulle frontiere più avanzate del business. Basti pensare alla Mediaset, l'azienda-madre di una città profondamente berlusconizzata. Me ne parla, nel garage di viale Lombardia adibito a sede della confederazione dei Cub, una vecchia conoscenza della lotta di classe nella Milano che fu: quel Piergiorgio Tiboni che lasciata la guida dei metalmeccanici Cisl og¬ gi organizza il sindacalismo autonomo di base, stessa voce roca, stessa fisionomia di rigonfio gallo da combattimento con la cresta bianca e il petto in fuori che sembra appena uscito da una vignetta di Altan. Cercando il cuore del nuovo conflitto metropolitano, il duro e generoso Tiboni non poteva che giungere ai cancelli di Cotogno Monzese e Milano 2, dove Videotime e Rti delegano alla Icet Studios il montaggio e lo smontaggio delle scenografie televisive. «Come Cub stiamo dando una mano ai cinquanta marocchini della cooperativa Alpa che la Icet adopera con paghe orarie da 10 mila lire - neanche la tariffa dei facchini - quando Mediaset gliene dà 35 o 40 mila». Non siamo in grado di verificare nel dettaglio le cifre fornite da Tiboni, che racconta di lavori notturni per ottimizzare il pieno utilizzo degli studi e mostra cartellini con 250 ore mensili di lavoro mal pagate. Ma di sicuro è molto più vasto e complesso il fenomeno che lui semplifica nella formula: «Si sostituisce lavoro regolare con lavoro irregolare». Perché in tutta Milano, in tutta Italia si assiste ogni giorno alla medesima scena di un direttore del personale che convoca dei dipendenti per dirgli: «Mi dispiace, non posso più tenervi con noi, ma se vi costituite in cooperativa vi aiuto con due anni di lavoro garantito». Di recente è successo anche ai guardiani dell'Ibm. Certo però che Mediaset resta l'esempio da manuale dell'azienda moder¬ namente decentrata. Ormai sono soci-lavoratori pure i consulenti musicali che fanno le sigle e gli stacchi, i macchinisti, i falegnami; invece le comparse e il finto pubblico plaudente a comando sono gestiti dalla Pragma, a sua volta in rapporto con una grossa cooperativa che conta parecchio sulla piazza milanese: la Movi Coop - spesso definita come «assai vicina ad Armando Cossutta» che qui fornisce opera di facchinaggio, gestione banchi elettrici e anche parte dei cameramen. Ma che poi lavora pure con Telecom, Mondadori, Plasmon e tante altre aziende. Tutto è provvisorio, nel ventre di Milano, là dove il lavoro non si vede: 33 mila addetti alle pulizie, quasi 50 mila tra ristorazione e pubblici esercizi, altrettanti nei magazzini merci, mentre si espande impetuoso l'esercito di chi opera nei servizi alle persone (già 32 mila). Sono cifre che Aldo Bonomi ha raccolto ne 11 capitalismo molecolare (Einaudi) ricordando come questi lavoratori siano a rischio di povertà. Ma Hquidare per intero in chiave miserabilista la proliferazione del popolo della partita Iva, sarebbe un grosso errore dentro una società che produce e distribuisce abbondante ricchezza. Guardiamo più in alto, allora, senza neppure bisogno di raggiungere il vertice della gerarchia sociale dove sono ormai insediati i giovani consulenti del business finanziario, tra banche fondi sim assicurazioni e brokeraggio. Fermiamoci pure un gradino sotto: non è forse Milano la dinamica capitale dei media, di un mondo dell'informazione distante dal Palazzo politico (leggi: Roma) e connessa invece ai soldi, alla moda, all'intrattenimento e ai consumi popolari? Carlo Formenti è un giornalista del «Corriere della Sera» che ha appena scelto di sganciarsi dal ciclo produttivo quotidiano (era redattore alle pagine culturali) per lavorare in proprio come collaboratore esterno, guadagnandoci in libertà e perdendoci in reddito. Il primo frutto della sua riconquistata autonomia è una ricerca realizzata per conto dell'Aaster proprio sulla galassia che ruota intorno ai colossi dell'editoria ambrosiana: Rcs, Mondadori, Rusconi. Qui la parola magica è servire, «utilizzati per produrre la pletora di supplementi e inserti che il marketing delle imprese sforna continuamente per aumentare la disponibilità di spazi pubblicitari, per differenziare il prodotto e per renderlo più appetibile al pubbUco». Sono i magazine che altri misteriosi abitanti del ventre di Milano producono lontano dalle redazioni di via Solferino o di Segrate per poi consegnarli, come si dice, «chiavi in mano». Qui possiamo incontrare grosse società come la Headline con 27 dipendenti ultraflessibili ma regolarmente assunti (caso più unico che raro), fornitrice grazie al suo ottimo sistema Macintosh di Tv sette al «Corrierone» e del «Gazzetta dello sport magazine». Più tipica è la vicenda dell'«Agenzia per la comunicazione sanitaria»: Luciano Benedetti e i suoi cinque soci dal '96 forniscono in cooperativa una rivista allo stesso committente che li aveva licenziati. «Lavoro il doppio di prima, anche i sabati e le domeniche, saltando da una mansione all'altra», ha confidato Benedetti a Formenti, «eppure debbo confessare che malgrado il tempo di lavoro abbia completamente invaso il tempo di vita mi sento arricchito sia dal punto di vista umano che da quello professionale». Anche nell'informazione ormai ci si districa dentro una giungla di subfornitori e microimprese, da chi si occupa di infografica agli impaginatori, dalla fotografia digitale ai correttori di bozze. Con una crudele ma inevitabile spinta dall'alto verso il basso neLTimporre condizioni talvolta vessatorie pur di lavorare. Così i tecnici della Weir, una grande srl che videoimpagina per vari editori, forti delle proprie tecnologie avanzate, denunciano la politica dei prezzi stracciati a bassa qualità di fornitura di coloro che Claudio Rovati definisce con una punta di disprezzo «i cantinari». Con il che siamo di nuovo nei sotterranei, nel ventre di Milano. Perché i cantinari sarebbero poi due o tre soci bravi in computer graphic che si mettono a elaborare dépliant per il supermarket ma all'occorrenza funzionano da tappabuchi del grande giornale. Ce n'è ormai una miriade. Dovremo abituarci a queste nuove metropoli tirate a lucido, talmente separate in un davanti e un dietro daO'indurci a rimuovere il dove si producono le cose che adoperiamo. Grande Milano, che così trova spazio per tutti, anche per i più arrabbiati. Chi l'avrebbe mai detto che di questo vasto popolo della partita Iva sarebbe entrato a far parte anche lui, Ermanno Guarneri, meglio noto come «Gomma», il più ribelle e coerente dei punk milanesi, grande organizzatore di cultura e di conflitti nell'area dei centri sociali giovanili autogestiti? Eppure la cooperativa Shake, che Gomma ha fondato con 5 compagni d'area punk, ormai agisce perfino in subfornitura della gloriosa casa editrice Feltrinelli, cui consegna «chiavi in mano» testi scelti tradotti tastierizzati e corretti in proprio. Oltre naturalmente a sfornare e distribuire libri autoprodotti, magari con il consiglio di Primo Moroni, grande vecchio degli alternativi con base al Ticinese. Di aiuti pubblici la cooperativa di Gomma ha fruito pochissimo («i soldi vanno alle cooperative di CI e dell'Arci»), ma lui si è rivolto alle banche e lavora 10 ore al giorno quando non pure la notte. «La nostra è una scelta consapevole di autodisciplina, meglio farsi u>i mazzo così che andare a lavorare sotto padrone. A muoverci è il rifiuto del lavoro dipendente», spiega Gomma. Il nuovo lavoro autonomo non piacerà a Bertinotti, ma può ancora colorarsi di rosso. Gad Lérner l lavoro in propio sta ormai contagiando anche Ibm e Mediaset Le cooperative proliferano nei settori arretrati ma anche in quelli all'avanguardia Metamorfosi di stili di vita Ora tutto diventa frenetico e provvisorio INCHIESTA Hill IL POPOLO DELLA PARTITA IVA ai" j l&'*M£M$Zi Una sala operativa dell'Abacus. In alto, addetti al montaggio delle scenografìe. Nella foto piccola, Emile Zola