MANACORDA: CON LE IPERBOLI SI SRAGIONA DI POESIA di Antonio Delfini

LA LETTERA LA LETTERA di Alberto Arbasino CARO Tuttolibrì, grazie per aver rievocato con Ernesto Ferrerò (e Cesare Garboli) e tanta simpatia l'affascinante Antonio Delfini. Quante bellissime nostalgie, oltre ai sensazionali volumetti «cult» Mìsa Dovetti e Modena 1831 pubblicati da Schetwiller, e subito «cotti e mangiati» con gusto squisito. Spesso a Roma ci si incontrava in via della Croce, con quei suoi begli abiti chiari e un cranio lucido ancora più elegante, fra le sale scure del Caffè dell'incomparabile G. B. Vicari (con quelle cravatte di picchè bianco...) e la trattoria di Cesaretto, lì di fronte, piena di Comisso e Flaiano e Furst come minimo... Sempre impaziente e anelante, anche se si trattava di finire la sera chiacchierando in Piazza del Popolo, passando fra Bobi Bazlen di qua e Carlo Levi o Sandro De Feo di là, o su un balconcino dei Parioli. E con risentimento antico per Moravia e Pannunzio, che molti anni prima l'avevano convinto a fondare una rivistina letteraria, ma impedendogli di collaborare in quanto editore, cioè finanziatore. (In quegli stessi Anni Cinquanta, Giorgio De Chirico stampava a sue spese \'Ebdòmero in una tipografia «Menghini» nella parallela via delle carrozze...). E più tardi, a Modena. Girando nei primi Anni Sessanta il film Lo be//o di Lodi a basso costo, occorrevano comparse di bell'aspetto per dare un'idea di ristorante elegante: la prima uscita impegnativa della bella Sandrelli col fidanzato garagista. Delfìni ed io, coi nostri migliori completi blu, facevamo sfondo, all'aperto, davanti alla facciata illuminata del Palazzo Ducale. E a Delfini, Stefania Sandrelli piaceva moltissimo. Però si parlava per ore e ore della Certosa di Modena, e non di Parma. Finito di pranzare e di girare, per metà della notte lui si infervorava a dimostrare contando i passi fra gli edifici e sopra i canali estensi coperti che Stendhal aveva calcolato e misurato le distanze precise fra la casa del suo avo Ciro Menotti e il palazzo del suo ex amico e poi carnefice, il pessimo duca. Altro che romanticismo surrealista. Altro, soprattutto, che la bile caratteriale e malevola di tanti suoi coetanei «impegnati e moralisti». Non solo la sua prosa incantevole (e la sua poesia, anche la più furibonda), ma la conversazione e la persona apparivano piene di una grazia molto privilegiata proprio perché involontaria. N una recente intervista, Michael Ondaatje, alla mia domanda su che cosa pensasse della fortunata definizione di ibrido corrente ormai per le letterature e gli autori che con sempre maggiore peso e fortuna giungono da quella che si definiva un tempo periferia dell'impero, mi ha risposto, con una risata: «Siamo tutti bastardi». Il termine bastardi, in chiave autobiografica, era stato usato da Derek Walcott, ma Ondaatje dice mongrel, l'animale bastardo indicato tradizionalmente con disprezzo da tutti i razzisti di lingua inglese, e naturalmente lo riappropria con una valenza positiva. Insomma, il meticciato culturale sta acquistando uno spessore decisivo soprattutto nelle nuove letterature di lingua inglese, e ritorna alla mente l'osservazione di Salman Rushdie quando sostiene che, se nessuno degli autori di tale area vuole e sa scrivere come un inglese, proprio questo «li rende liberi». Continuo a pensare che il termine «ibrido», posto in circolo soprattutto da Edward Said, sia più ap¬ propriato del diffuso «post-coloniale», e ho voluto misurarne la portata in una circostanza in certo senso unica, a Palermo, in occasione della premiazione del premio Mondello. Occasione, dicevo, unica perché ha raccolto e messo a confronto quattro scrittori di matrice diversa ma a suo modo concorrente. Ecco André Brink, sudafricano di estrazione afrikaner, che ha iniziato la carriera letteraria scrivendo in afrikaans e passando poi all'inglese; Margaret Atwood, canadese; Romesh Gunesekera, sii lankiano come Ondaatje residente oggi a Londra, e infine Khushwant Singh, indiano sikh, Ho voluto porre a tutti, che conosco bene anche sul piano personale, la stessa serie di domande. Brink, il cui intenso e drammatico, persino tragico, romanzo La polvere dei sogni, pubblicato di recente da Feltrinelli, è forse la sua opera più ambiziosa e inquietante, insiste giustamente nel rifiutare di porre l'accento esclusivamente sul tramonto dell'apartheid, al quale era stato iniziato da ragazzo e a cui tormentosamente si ribellò. «Bisogna rilevare che uno scrittore non parte mai da una realtà puramente esterna dice Brink - ma dal suo mondo interiore. Ciò premesso, la caduta dell'apartheid, la fine di una censura imposta o subita, ha aperto un nuovo orizzonte. Oggi riesce possibile allo scrittore sudafricano fondere la grande tradizione orale del racconto dei neri con quella dei bianchi che, ancestralmente, passavano le serate a raccontare e a raccontarsi. Nel segno di questo incontro, emergono le vicende pubbliche e le vicende segrete, prendono corpo i vivi e i morti che sostanziano il linguaggio». Ecco, dunque, un caso, per così dire, di un meticciato risultante di voci, e linguaggi, diversi. Gunesekera, autore di un romanzo, Barriera di coralli, pubblicato da Feltrinelli e che mi è accaduto, in una recensioji&jiidefinire «limpidamente inquietante», ha posto a contrasto due generazioni in Sri Lanka, un uomo anziano, ricco, raffinato e tormentato, e il suo giovane domestico che egli in qualche modo inizia alla scoperta del mondo. Andranno insieme a Londra, ma l'anziano Galgado ritornerà in patria, mentre il giovane Triton (tritone, creatura del mare) rimarrà cercando di trovare un'identità nuova, pur senza dimenticare mai le proprie origini. «Si tratta di due ossessioni - dice Gunesekera -, speculari e quasi comunicanti. L'occhio con il quale i due personaggi guardano alla realtà è diverso, ma le loro ossessioni si scambiano di continuo, e non verranno mai meno, riflesse Una lingua rivitalizzata ai confini dell'impero: da Rushdie a Ondaatje persino nella natura che l'uomo sta assediando e in parte distruggendo». , Dunque, il meticciato scaturisce precisamente da due identità e da due spazi geografici remoti ma che si dilatano. «Sì. Il processo non avrà mai termine, e produrrà sempre situazioni nuove, complesse, imprevedibili». L'anziano non risolverà mai i suoi dilemmi; il giovane sa che non verrà mai completamente accettato nel nuovo Paese. «Certo, ma entrambi lo sanno, e ne devono prendere atto». L'ottantaquattrenne Singh è autore di un vero romanzo culto, Quel treno per il Pakistan, edito da Marsilio ambientato in un villaggio del Punjab nel '47, quando all'indipendenza dell'India seguì la tragedia della cosiddetta Spartizione con la nascita del Pakistan, segnata da conflitti che provocarono un milione di morti. Nel villaggio, un tempo tranquillo grazie a una pacifica convivenza di hindu e di islamici, esplode la Sopra: Michael Ondaatje Da sinistra: André Brink e Margaret Atwood tragedia. Alla domanda «perché non scrive nella sua lingua madre?», Singh sorride: «Non venderei più di duecento copie». Ma è una battuta: qui il meticciato linguistico discende in effetti da una tradizione di antica civiltà, e l'inglese di Singh appare percorso da correnti sotterranee moderne e antichissime quanto l'India. Un romanzo, si suole definirlo, aspramente realistico. «Naturalmente. Dopo un evento così terribile, restava soltanto, per liberarsi, da scriverne. Ma i tre personaggi centrali, il povero contadino ignorante, il comunista, nel quale in parte mi identifico criticamente, e il magistrato, che alla fine rinuncia a lottare mentre soltanto il contadino, a prezzo della vita, consente al treno insanguinato di riprendere il suo viaggio, incarnano la grande trinità religiosa indiana, il dio che crea, il dio che conserva, il dio che distrugge». Ecco allora che l'apparente realismo si carica di una visione sim¬ bolica in sé profondamente terrestre, radicata nella gente e nel paesaggio, nel filone di uno dei grandi classici indiani, il Gita. Il meticciato assume allora una vertiginosa significazione, locale e universale, di unicità. L'altra Grace, l'ultimo grosso romanzo della Atwood pubblicato da Baldini & Castoldi, ci riporta a un episodio storico nella Toronto vittoriana: una causa celebre con una donna accusata di omicidio che non sapremo mai se ha davvero commesso. «L'esperienza dello scrittore - spiega Atwood - lo induce a porsi qui come davanti a un. pubblico, che. è .il pubblico al quale si rivolge Grace, al processo, o interrogata dallo psichiatra che vorrebbe strapparle il mistero. Un enigma non risolto, e che non importa sia risolto». L'enigma, a ben vedere, riguarda il significato del romanzo come tale, il suo rapporto con il pubblico invisibile, e insieme l'impossibilità di inchiodare la donna a una identità precisa, vittima, dèmone, innocente, mistificatrice. Un meticciato bifronte che si sfrangia nello stesso linguaggio. Una delle tante rivincite delle nuove letterature che ricusano la presa dominatrice del vecchio centro ormai smantellato. Claudio Gorlier MANACORDA: CON LE IPERBOLI SI SRAGIONA DI POESIA QUESTA è una strana società letteraria, ammesso che esista. Se uno dice delle semplici verità commette delle «cattive azioni», è «grossolano». Giovanni Tesio ha avuto la bontà di occuparsi di me anche altre volte, e la struttura dell'articolo è sempre la stessa: Manacorda ha ragione praticamente su tutto, ma non si fa così. Tesio non se la sente di difendere l'antologia di Maurizio Cucchi e Stefano Giovanardi (credo sia il libro più stroncato dal dopoguerra ad oggi), né di difendere il libro del povero Riccardi. Devo dire che, mentre scrivevo, mi dispiaceva per Riccardi. Non sono abituato a prendermela con i pesci piccoli. Ma Riccardi è piccolo solo come poeta, egli infatti dirige gli Oscar Mondadori e, da poco, anche Lo Specchio, e Cucchi lo ha presentato nella collana di poesia di Mondadori come il maggior poeta della sua generazione. Mi sono limitato a riportare per intero una poesia di Riccardi commentandola. Se qualcuno vuole dimostrare che Cucchi ha ragione, lo faccia. Si prenda le sue responsabilità. Non si dica, come fa Tesio, che non so stare a tavola. Perché il problema (per gli altri) è proprio questo: non sono seduto a nessuna tavola. Il pezzo di Giovanardi è curioso. Si può, infatti, leggere in due modi: prendendolo alla lettera, allora Giovanardi veramente da ragazzo andava in giro baciando e abbracciando Pagliarani e Giuliani, allora veramente io gli avrei detto che doveva prepararsi a scrivere su di me, e veramente sarei un tifoso, e di una squadra veramente retrocessa in serie B. L'altra lettura, quella autentica, prende atto del fatto che Giovanardi sta facendo dell'ironia per mettere alla berlina la mia affermazione che tutta la sua prefazione risente della sua sudditanza intellettuale dalla neo-avanguardia. Giovanardi ironizza per iperbole, quindi quello che dice non è vero: non è vero che andasse in giro sbaciucchiando Pagliarani e Giuliani, non è vero che io gli abbia detto che doveva prepararsi a scrivere su di me - il. che, sia detto per inciso, rivela un ego ipertrofico: io avrei individuato nel Giovanardi quattordicenne il genio che avrebbe immortalato domani la mia poesia, e avrei fatto di tutto per accaparrarmelo! -, non è vero che sono un tifoso della poesia come i domenicali dementi per le squadre di calcio, non è vero che abbia una squadra, la quale, quindi, non può essere di nessuna serie in un campionato che non esiste. Giovanardi, quindi, mente e, come tutti coloro che non hanno argomenti, calunnia. Tra l'altro, non c'è nessuna squadra «poetica», infatti l'Annuario è firmato solo da me. Dov'è doveva prepararsi a scrivere su di me - il. che, sia detto per inciso, rivela un ego ipertrofico: io avrei individuato nel Giovanardi quattordicenne il genio che avrebbe immortalato domani la mia poesia, e avrei fatto di tutto per accaparrarmelo! -, non è vero che sono un tifoso della poesia come i domenicali dementi per le squadre di calcio, non è vero che abbia una squadra, la quale, quindi, non può essere di nessuna serie in un campionato che non esiste. Giovanardi, quindi, mente e, come tutti coloro che non hanno argomenti, calunnia. Tra l'altro, non c'è nessuna squadra «poetica», infatti l'Annuario è firmato solo da me. Dov'è Cucchi, curatore con Giovanardi di una discussa antologia poetica la squadra? E' nella testa di Giovanardi, che insieme a Cucchi, ha compilato un'antologia concepita come un campionato di calcio: per squadre. Il tifoso è lui, e non può pensare che gli altri non lo siano. Se questo è vero, è lui che è in serie B, come dimostra l'antologia mondadoriana e la sua prefazione. E se Giovanardi è di serie B adesso, figuriamoci da ragazzino! Invece di fare il furbo con l'ironia e con le iperboli, perché Giovanardi non risponde sull'inclusione di Bevilacqua nell'antologia? Perché non risponde sul risibile criterio che ha condotto a pubblicare quasi esclusivamente autori Mondadori (cioè