IL PCI FECE IL PIENO DI VOTI MA PERSE I COMPAGNI DI STRADA di Angela Bianchini

..5 ..5 SAGGISTICA TASCABILI VARIA E RAGAZZI e ono ben quattro 1 nuovi ingressi OENZESBERGER 28.000 Einaudi ©GOLDONI . 26.000 Rizzoli ©FOLLETT 6.900 Mondadori ©GNOCCHIG. 20.000 Bompiani ^MJ^^^ia^£S!& II mago dei numeri SI [1] Casanova romanticaspia 25 [2] II terzogemello 76 [6] II mondo senza un filo di grasso 40 [1] dese e cattolica di McCourt, taltanato da OLAPIERRE 32.000 Mondadori OHILLMAN 34.000 Adelphi Q BLOCH 6.900 Superpocket ©FEDEE. 27.000 Mondadori En«^er - matemato, Gmxchi - enMille soli 34 [1] llcodicedell'anima 24 [1] La legge di Murphy 30 [1] Finche c'e Fede 30 [4] 'S^rteTdSTrMlizzata ©GERVASO 30.000 Mondadori ©SAVATER 18.000 Laterza ©FALLACI 6.900 Superpocket ©JACQ 14.000 Mondadori ^^S^tosSSSi^Sftt 1 sinistri: da Mussolini a Scalfaro 31 [1] A mia madre mia prima maestra 22 [3] Unuomo 24 [1] Storie e leggende di Ramses 23 [1] tazione in un campione di 120. Si assegna- © DE MELLO 16.000 Piemme © BIAGI . 28.000 Rizzoli © MADRE TERESA 9.900 Rizzoli © SEPULVEDA 16.000 Salani SiTSS^^^^ Dove non osano i polli 29 [4] Sogm perduti 19 [18] Le mie preghiere 19 [1] Storia di una gabbianella 23 [50] porzione. La cifra a destra fra parentesi ©D'ALEMA 24.000 Mondadori ©FIORI 22.000Einaudi ©CORMIER 9.900 Rizzoli ©VARI 39.000 Demetra K^JH^Z^ Ugrandeoccasione 2$ [6] Una storia italiana 19 [4] Le battaglie non si perdono... 19 [1] Ricettano di pasticcena 19 [1] riferisce alia serimana dal 2 all'8 ottobre. Inizio Anni 70: Franco Piperno ad un'assemblea all'Università di Roma. Il confronto con i gruppi dell'estrema sinistra prima, e con il terrorismo poi, fu una delle fasi più aspre della crisi che si determinò tra il gruppo dirigente del pei, i giovani e gli intellettuali IL PCI FECE IL PIENO DI VOTI MA PERSE I COMPAGNI DI STRADA Ajello: la crisi del rapporto tra intellettuali e partito dal '58 al '91 IL LUNGO ADDIO Intellettuali e pei 1958-1991 Nello Ajello Laterza pp. 480 L. 30.000 Il boom di editoria, tv e giornalismo d'opinione moltiplicò le teste pensanti della sinistra e cancellò i militanti in senso tradizionale VENDO divorato nell'ormai lontano 1979 il primo volume della ricerca dedicata da Nello Ajello al tormentoso rapporto tra intellettuali e pei dal 1944 al 1958, riesce inevitabile confrontare innanzitutto quella vecchia copertina ingiallita con questa fresca di stampa del secondo volume. E' un confronto impietoso ma anche rivelatore, di cui non potremo certo addossare la colpa all'autore Franco Originario, art director dell'Espresso, il settimanale di cui a lungo Ajello è stato condirettore. Fatto gli è che le vicende narrate nel primo volume avevano trovato l'illustrazione più naturale in un particolare de I funerali di Togliatti di Renato Guttuso, dove nel mezzo del popolo in lutto si riconoscono vari Lenin e poi Sartre, Vittorini, Angela Davis... L'intelligencija ritorna lì massa devota, capace di fondersi nel riconoscimento di un fine superiore. Poteva forse Originario disegnare qualcosa di simile per gli anni che dal 1958 conducono allo scioglimento del pei, nel 1991? Ovvio allora che appaiano ffi ll' ppgoffi quell'Asor Rosa con una specie di bavaglino raffigurante Marx, il Berlinguer manifestante che regge un ritratto di Togliatti mentre sotto di lui Ingrao si trova sulla testa un cappello di paglia cinese e alle sue spalle - immancabile - lo scruta Scalfari. Poi ci sono ancora Bobbio, Cacciari, Sciascia, Amendola, Occhetto, Rossanda, ma senza alcuna solennità, come sovrapposti a casaccio. Che sia questo l'unico ritratto possibile del rapporto tra il pei e gli intellettuali nell'epoca della massima sua forza elettorale e del massimo suo declino culturale? La nitida scrittura di Ajello, venata d'ironia, ci conduce dentro un'aneddotica sempre intrigante, gustosa. La baruffa giornalistica prende vieppiù il sopravvento sulla controversia teorica, la terrazza romana sulle redazioni fumose, tanto da indurci al sospetto che si tratti di una perfida scelta demolitrice perpetrata dall'autore. Ma a ben vedere, la ragione del progressivo disperdersi in mille rivoli disordinati di coloro che furono i «compagni di strada» è altrove: trova spiegazione nella nascita, alla fine degli Anni Cinquanta, di una moderna industria culturale che sfugge al controllo diretto del partito. Il boom dell'editoria, della pubblicità, della televisione, del giornalismo d'opinione determinerà il moltiplicarsi di diverse figure intellettuali, anche di sinistra ma non più militanti in senso tradizionale. Questa diaspora da un partito che pure goffamente difenderà fin quasi alla fine dei suoi giorni il principio del centralismo democratico (ecco il suo più autentico legame culturale persistente col comunismo sovietico) è sintomo della malattia che riconosciamo descritta sottotraccia nelle pagine di Ajello: l'incapacità di interpretare la nuova società italiana con le categorie del togliattismo. Il gruppo dirigente del pei appare invecchiato, distante dai fermenti giovanili e dai bisogni che manifestano nelle fabbriche, nelle scuole, negli uffici ma anche nei consumi culturali. Poco importa da questo punto di vista che il pei capitalizzi elettoralmente i sommovimenti di un'Italia in crescita sul piano economico e sociale. Può prenderne i voti, ma non la capisce e anzi reagisce con fastidio come dimostra la parola d'ordine berlingueriana dell'«austerità» e il singolare tragitto riformistico-staliniano di Giorgio Amendola. Tra gli sberleffi radicali di un Sessantotto prolungato e l'indispettita grevità conservatrice con cui vi fa fronte un Antonello Trombadori, il pei non troverà mai più l'identità perduta. Ma nel solco dell'insegnamento togliattiano la cercherà sempre riaffermando il primato della politica che con Tronti e Cacciari diventerà l'autonomia della politica sull'interpretazione sociale. Così Ajello può narrarci di un partito il cui vertice difende Lenin dalle critiche di Bobbio e dagli assalti di Craxi, mentre i suoi giornali sono impegnati a discutere di rapporti interpersonali tra compagni etero e omosessuali. Quanto alla satira interna, non attenderà lo strappo con Mosca per dissacrare i principi fondamenta¬ li del comunismo reale. Forse proprio l'incedere di questa dissoluzione così ben narrata nel libro di Ajello fornisce l'unica risposta possibile all'interrogativo avanzato da Pierluigi Battista su La Stampa del 2 ottobre scorso: perché una così scarsa attenzione ai legami tra l'intellettuale comunista italiano e il totalitarismo comunista sovietico, cubano, cinese? Perché una sola citazione nell'indice dei nomi per Alexander Solzenicyn contro le quattro per Mino Fuccillo? Non vi è dubbio che l'intellettualità di sinistra italiana ha lasciato per lo più evaporare quell'imbarazzante legame ideale senza farci i conti sistematicamente, forse con l'unica eccezione del gruppo del manifesto che da quella riflessione critica trarrà infine argomenti per ridefinirsi a suo modo comunista. Ma i tratti illiberali del comunismo italiano, dagli Anni Sessanta fino al suo epilogo, si ritrovano piuttosto nella supremazia ideologica attribuita al Partito (e alla sua diversità) come unica fonte di legittimazione, che non nei suoi riferimenti ad altri modelli sociali o regimi stranieri. Così è stato semplice per gli intellettuali di sinistra italiani sottrarsi alla disciplina intimidatrice di un partito comunista in crisi. Per questo nel secondo volume di Ajello - a differenza che nel primo - non c'è dramma. Gad Lerner ■ornano cattivo estro i inceri» itovari ivive t furia [li'Anri 'iomb* mare e le bocce sono destinati a rimanere l'ultimo ricordo di quiete. Il romanzo è quello di una ricerca politica mai veramente accantonata, ma la volontà di farci partecipi della realtà ha messo Mantovani in condizioni di ripercorrere, in maniera documentata e analitica, tutta la storia degli anni che, dal '68 in poi, trasformarono l'Italia in un covo di eversioni d'ogni matrice e colore. Forse è proprio il contrasto tra cronaca recente e romanzo a far sì che il libro di Mantovani si legga d'un fiato e con piacere. Mancano le distanze epocali dai fatti e ci pare di scorrere, a tratti, un articolo di giornale, ma questo gioco di rimandi, di personaggi presi in prestito dalla realtà e calati nella finzione narrativa, non solo rendono omaggio a chi di quegli anni conserva intatto soprattutto il dolore, ma anche a quanti, nel bene e nel male, a quegli oscuri ideali avevano davvero creduto. Il resto è solo una gran bella storia da godere e sulla quale, possibilmente, meditare. Sergio Pent TUROW, IL PASSATO ALLA SBARRA LA LEGGE DEI PADRI Scott Turow Mondadori pp. 646 L. 33.000 LA LEGGE DEI PADRI Scott Turow Mondadori pp. 646 L. 33.000 ENTO pagine iniziali intensamente lente. Cento pagine finali trascinanti, con due orazioni funebri incastonate come un arcobaleno nello scroscio di una cascata. In mezzo, l'oceano del ricordo, della gioventù perduta, delle illusioni smarrite nel grande sogno di una nuova felicità costruita sulle ceneri del mondo, al suono della rivoluzione, delle chitarre e dell'amore. Vibrazioni, guerra, droga, morte e libertà. California, Vietnam e America delle marce e dei diritti civili. Improvvisamente scivolati nell'oggi. Nel ciò che è rimasto degli ideali. Nel come si è cambiati. Nel quanto si è tradito. Nel dove la vita ha finito per condurre un'intera generazione segnata dal marchio della speranza. Ecco, La legge dei padri è questo. E Turow è il Caronte che traghetta le ragioni di un omicidio inspiegabile da un'era all'altra, in un processo che giudica il presente, ma che ha i moventi e man¬ danti nel passato. Nei trent'anni che separano la chimera dalla realtà. C'erano gli Eddgar in quella Berkeley che non viene mai nominata: Lovell e June, marito e moglie, teologo-ideologo e pasionaria. E Nile, il loro frutto svezzato tra bombe e pannolini. Al piano di sotto vivevano Seth e Sonia, amanti problematici, il segno delle radici ad accendere i loro fuochi: lui figlio dell'Olocausto (padre e madre sopravvissuti al lager che ha mandato nella camera a gas le precedenti famiglie), lei figlia del Comunismo (una madre, Zora, femminista e combattente della precedente utopia, un padre in fuga). E poi: Hobie, il nero, Borghesia e Pantere; e Michael, il ricercatore, mente prigioniera della scienza, sensi prigionieri di June. Una sorta di comune vissuta in condominio, con l'università sullo sfondo, illuminata dai falò delle lettere precetto e della sempre più aspra guerriglia delle idee e delle bandiere. Gira la clessidra e, d'incanto, la comune si ritrova trasferita nelle aule severe di un tribunale. Il «piccolo» Nile è sul banco degli imputati, accusato di omicidio perché nell'inquietante atmosfera di violenza e depravazione di un moderno ghetto washingtoniano (celato dietro il generico schermo di una immaginaria Kindle County) avrebbe armato la mano prezzolata che ha ucciso June, madre e moglie ormai separata di Lovell suo padre, diventato nel frattempo senatore dello Stato. Sul seggio del giudice siede Sonia. Su quello della difesa, Hobie. A raccontare la storia sui giornali, Seth che ha finito per sposare Lucy, antica compagna dello stesso Hobie. Unico assente: Michael. Ma sarà proprio la sua latitanza la chiave di volta dei mille segreti di tutte quelle vite che all'improvviso dovranno essere vissute due volte ricostruendo legami, distruggendone altri, raddrizzando torti, procurandone nuovi, terribili. Come se la macchina del destino, ferma per lustri in Scott Turow esercita ancora a Chicago l'attività di avvocato attesa di un segno, fosse stata di colpo risvegliata dall'odore del sangue e dalle ferite degli anni. Impeccabile, come al solito, l'impianto scenico di Turow. Ma questa volta, al posto della giuria, c'è la storia che, pur risolvendo piccoli dettagli quali la colpevolezza o l'innocenza contingente in quell'ultimo defitto, offre in più verdetti singoli, intimi, dei vari protagonisti. Procedendo addirittura per ceppi, per razze, per religioni. A partire da Seth 1'«ebreo». Per finire con Hobie il «negro». In un continuo altalenare genetico, dove tradizione, cultura e sentire comune si affastellano nei desideri, nelle ambizioni e nelle frustranti ossessioni di un melting pot in un incessante divenire che ingurgita - come lo stomaco di un immenso struzzo - qualsiasi rivoluzione e la digerisce mantenendo però intatta l'identità ed il senso di appartenenza. Anche questo è il sistema... Piero Soria TAIBOII: RISORGE OLGA LAVANDEROS MA TU LO SAI CHE E* IMPOSSIBILE Paco Ignacio Taibo II Marco Tropea pp. 114 L. 16.000 MA TU LO SAI CHE E* IMPOSSIBILE Paco Ignacio Taibo II Marco Tropea pp. 114 L. 16.000 LGA Lavanderos e le sue storie nacquero con il destino di vivere e morire una volta e per sempre nel primo romanzo che avevo dedicato loro, Sentendo che il campo di battaglia. Se sono tornate, la colpa ce l'hanno da un lato gli amici che mi hanno convinto, dall'altro il settore fighetta dell'onesta corporazione dei critici letterari nazionali, che decretò l'inesistenza del libro e del personaggio. Per gli appassionati di cronologie, la storia centrale qui raccontata inizia qualche mese dopo la fine della precedente, ma, per ragioni di convenienza aneddotica, ho fatto ricorso a una trappola spazio-tempo, ci troviamo adesso all'inizio dell'estate del 1988». Così, con il suo solito piglio secco e scanzonato, Paco Ignacio Taibo II, il grande narratore messicano, nato però nel 1949 a Gijón, in Spagna, pubblicista, docente universitario, sindacalista, notissimo per la sua rigorosa biografia di Che Guevara (appena rievocata in televisione nell'omaggio al Che) e altri romanzi (i l l i (citeremo soltanto Come la vita, La bicicletta di Leonardo e il già ricordato Sentendo che il campo di battaglia) offre ai suoi tanti, e prevalentemente giovani, afìcionados italiani, un nuovo piacevole spunto di giallo politico, Ma tu sai che è impossibile (traduzione di Bruno Arpaia). La figura femminile e attualissima della ragazza Olguitas, nello sfondo di Città del Messico, o meglio del DF (De-efe, Distrito Federai), si complica qui di due figure subalterne ma essenziali; un bambinetto quasi parente, «con un cespuglio di capelli ritti sulla testa come un piccolo De Niro in Taxi driver» e un ottuagenario, reduce di patrie battaglie, comparso sulla soglia della casa della ragazza per dichiarare che è suo nonno. Due belle invenzioni alle quali è affidata in certo senso la soluzione del giallo:,vale a dire le morti inspiegabili e in apparenza assolutamente separate tra loro, di tre individui, due uomini e una donna, di cui Olguitas viene a conoscenza nel corso del suo lavoro, anch'esso stralunato e attualissimo, di tagliatrice di telex in una cosiddetta agenzia giornalistica. Il tutto è, a un tempo, cinematografico, ma anche molto letterario e proprio nella sua letterarietà, nel potere di evocare l'atmosfera della città attraverso segni minimi ma essenziali («La città si era riempita di scritte sui muri. Nelle ultime settimane ne erano apparse di nuove. Gli imbrattatori dei muri dipingevano in rosa, un rosa schifoso. A volte mentre andavo in ufficio, le trovavo ancora fresche, fermavo il motorino e mi accertavo che gli anonimi narratori e messaggeri fossero appena passati di lì. Eppure nessuno Ù aveva visti e probabilmente non li avrebbero visti mai») sta l'arte allucinata e nervosa di Taibo. Nella prospettiva della narrativa di Taibo come esercizio di investigazione della condotta sociale, già puntualmente osservata e esaminata da Giuliano Soria, il personaggio di Olguitas, sorella minore del commissario Belascoaràn, rappresenta una variante di un certo interesse. Perché donna e più sensibile, a lei viene affidata una versione Paco Ignacio Taibo II spagnolo di nascita, messicano d'adozione malinconica e deludente della sua città. Non a caso, quasi a conclusione della sua indagine, arrivata a buon fine ma del tutto inutile, essa dice: «Quando al tramonto vedo dalla mia finestra le luci del DF che si accendono sento che a volte mi piacerebbe... mettere una certa distanza tra me e la mia città, per poterla amare, allora, dal di fuori. La distanza, che tutto cura e ama, non è oblio, ma memoria». Ma accanto al lato struggente, c'è, nella vicenda di Olguitas e di suo nonno, un lato fortemente comico, e anche significativo. Infatti, per quando a prima vista impossibile, la cospirazione, suggerita dal nonno, «tra il corrotto governo messicano» e la Santa Sede, si rivela poi assolutamente vera e, in alcune vertiginose scene di sotterranei, di francescani armati, di incendi appiccati, sembra di tornare pari pari al romanzo nero. Anzi al Confessionale dei penitenti neri di Mrs. Radcliffe, pubblicato esattamente duecento anni fa. Angela Bianchini i

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