Una critica differente alle 35 ore per decreto di Alfredo Recanatesi

Una critica differente alle 35 ore per decreto Una critica differente alle 35 ore per decreto IENTRATA la crisi di .governo e ripristinata la normalità sui mercati (con il differenziale del tasso a lungo termine sui titoli pubblici sceso a meno di mezzo punto percentuale rispetto a quello tedesco) il dibattito si è spostato sul tema delle 35 ore. Per gli equilibri dei mercati valutari e finanziari non è un tema di grande rilevanza, e non solo perché i mercati non guardano lontano - come ha osservato Giacomo Vaciago su II Sole-24 Ore -, ma anche perché, in Italia come in Francia, le relative leggi si delineano più come di mdirizzo che prescrittive, e se ciò può far rabbrividire qualche giurista, è certamente rassicurante per chi debba prevederne o scontarne fin d'ora le conseguenze. E' rilevante, invece, il senso politico della vicenda delle 35 ore. L'origine può essere individuata nel «dicembre francese». Solo chi avesse tenuto deliberatamente gli occhi chiusi poteva non vedere in quel lungo, civilissimo e corale sciopero l'espressione di una mquietudinme sociale che, non solo in Francia, era alimentata dagli effetti che il processo di integrazione monetaria e la globalizzazione del confronto competitivo andavano congiuntamente determinando sulle politiche economiche. Quello sciopero rese evidente che la cultura diffusa dell'Europa non chiedeva tanto una accelerazione dello sviluppo complessivo del sistema, quello che si misura come Pil, ma equità sociale, riduzione delle differenze, solidarietà, lavoro inteso anche come partecipazione alla distribuzione del reddito e attribuizione di dignità sociale. E se questa era ed è la domanda, non poteva certo essere soddisfatta con la proposta di un modello americano, che accetta abissali differenze di reddito e di dignità sociale, né può essere arginata con il deterrente della concorrenza dell'Est europeo o del Sud-Est asiatico, fatta di remunerazioni e di condizioni di lavoro del tutto inaccettabili. La insoddisfazione di quella domanda ha determinato in Francia, attraverso un ribaltamento della maggioranza a favore della sinistra, e in Italia, con una nuova intesa politica che sarebbe riduttivo considerare imitativa, un pur cauto e circospetto disegno di legge per la riduzione dell'orario legale di lavoro. Gli imprenditori han no reagito - platealmente in Francia e con più saggia misura in Italia - come sempre è avvenuto ad ogni passo compiuto in questa o in analoghe direzioni Ma non è questo il punto. Il punto è che la loro reazione, co me quella di politici ed econo misti, si è limitata a contestare il principio dell'intervento legi slativo su tali materie, a smon tare la promessa demagogica di creare occupazione con ridu zioni di orario, a definire il dan no che può derivarne alla com I petitività delle imprese ed alle I prospettive di crescita com- plessiva dell'economia. Un terreno facile, dunque, che è tale anche perché è fuori bersaglio, non cogliendo le istanze alle quali - propriamente o impropriamente, si vedrà - con questi interventi legislativi il potere politico intende dare una risposta; non cogliendo che in Europa la tensione allo sviluppo è temperata da quella per la equità della distribuzione dei suoi frutti; non cogliendo che l'abbondanza di questi frutti è stata promessa come prodotto dell'unione monetaria che si va realizzando anche in virtù dell'impegno che proprio Italia e Francia - guarda caso - hanno dovuto maggiormente profondere per perseguirla. Nella misura in cui sarà realmente operante, la riduzione di orario introduce rigidità che è fin troppo ovvio condannare. Ma la condanna è sterile se nello stesso tempo non si prefigurano credibih alternative che soddisfino istanze che sono lì, reali, diffuse, e che la politica europea va gradatamente considerando anche con altre non meno significative iniziative. Cos'altro significa quel Consiglio di coordinamento delle politiche economiche che Francia e Germania hanno deciso che sia costituito tra i Paesi dell'unione monetaria per affiancare la Banca centrale europea? E' evidente che si tratta di un organismo col quale, sia pure con ruolo inizialmente consultivo, la politica tenta di recuperare una gestione del cambio che il trattato di Maastricht le ha di fatto sottratto e compensare, quindi, il potere incondizionato col quale la Banca centrale europea sta nascendo. Diciamo pure che l'intento è quello di introdurre nella gestione del cambio dell'euro una valutazione politica, ed equilibrare con una attenzione alle ragioni dello sviluppo l'ottica tipica di ogni Banca centrale, che è esclusivamente puntata sulle ragioni della stabilità monetaria: un intento istituzionalmente ineccepibile, ma inconcepibile soltanto alcuni mesi fa. E allora, se non si coglie il diverso clima politico europeo, e se si ristagna nella pedagogica contestazione dell'intervento legislativo per le 35 ore, anziché nel costruire risposte più adeguate alle istanze che quell'intervento hanno determinato, i rischi per il futuro deli'economia francese, italiana, europea potrebbero essere ben maggiori di quelli, non certo sconvolgenti, insiti nelle leggi che in Francia e in Italia si vanno preparando. Alfredo Recanatesi est |

Persone citate: Giacomo Vaciago