La caduta del covo dei covi

La caduta del covo dei covi La caduta del covo dei covi San GiuseppeJato è diventato il paese dei boss «traditori» PALERMO. A scoprire quel covo sicuro, negli anni dorati della sua latitanza, fu il padrino Luciano Liggio, il vecchio patriarca della mafia corleonese. La leggenda vuole che sia stato lui il primo a utilizzare come nascondiglio un casolare nascosto tra le contrade di San Giuseppe Jato, 9 mila abitanti a 30 chilometri da Palermo, due cinema, tre parrocchie e tre piazzette in un labirinto di vicoli e strade, feudo di mafia antica e potente, rifugio prediletto di boss e latitanti. E il debito d'ospitalità Liggio lo ricambiò, da gran signore, con la promessa di un sodalizio duraturo tra i picciotti corleonesi e le «famiglie» jatine. Saranno proprio i corleonesi, fedeli al patto sancito, a sostenere poi Bernardo Brusca, un allevatore di vacche promosso al rango di boss, contro il vecchio capomafia Antonino Salamone, che scontava la colpa di essere amico di Totò Greco «Cicchitteddu», boss odiatissimo dai padrini di Corleone. Un'alleanza mantenuta a distanza di decenni, visto che lo stesso Totò Rima, all'inizio del 1981, mentre a Palermo esplode la guerra di mafia, si rifugia in una casa rurale a due elevazioni, in mezzo alla campagna di San Giuseppe Jato, la casa di tale «zio Totò», alias Salvatore Lazio, morto suicida tre anni dopo. Per Riina, il capo dei capi di Cosa Nostra, la «famiglia» mafiosa di San Giuseppe Jato costituisce una corte di fedelissimi. Negli anni della sua leadership assoluta, don Totò sceglie nel paesino montano i suoi collaboratori più fidati. Uno è Angelo Siino, detto «Bronson», venditore di automobili col pallino degli affari, l'uomo al centro dell'intreccio mafia-appalti che il pentito Leonardo Messina ribattezzò col soprannome di «il ministro dei lavori pubblici di Cosa Nostra». Di Siino, il capo dei capi si serviva come ci si può servire di un «ambasciatore», o magari di un valletto alle proprie dirette dipendenze. Un altro è Vincenzo Di Marco, originario di Partinico ma residente a San Giuseppe Jato, anche lui finito in manette con l'accusa di associazione mafiosa. Era l'uomo di fiducia, il factotum e il giardiniere del superboss, ma all'occorrenza faceva anche da guardaspalle alla moglie Ninetta Bagarella. Il nome di San Giuseppe Jato - questo è certo - Riina non potrà mai dimenticarlo. Anche l'autista, il superboss corleonese se lo scelse nel paese prediletto, adottando quel Balduccio Di Maggio che poi lo «tradirà» consegnandolo ai carabinieri. San Giuseppe Jato è oggi un paese di collaboratori e dichiaranti. Parlano tutti, Siino, Di Maggio, e Giovanni Brusca, il picciotto che aveva tutti i numeri per assumere il comando del territorio. Purtroppo né Brusca né Di Maggio, duellanti nella scalata al potere paesano, sono tipi che dimenticano. Giovanni, per screditare l'avversario, ha tentato persino di inquinare le indagini con false confessioni. Balduccio, trasferito lontano dalla Sicilia coi «galloni» di pentito, è tornato al crimine per decimare i seguaci di Brusca, l'eterno rivale, a costo di perdere la faccia, il sussidio e la credibilità. Al centro di tutto, ancora e sempre San Giuseppe Jato, il presepe accucciato tra i vigneti, le sue trame, i suoi segreti, i suoi misteri: forti come un retaggio, feroci come una maledizione. Sandra Rizza Giancarlo Caselli, procuratore capo di Palermo, in alto, da sinistra, il presidente della commissione Antimafia Ottaviano Del Turco e l'ex boss mafioso Giovanni Brusca. A sinistra, un altro ex boss, Tommaso Buscetta