Viaggio al centro delle macerie di Pierangelo Sapegno

Viaggio al lenirò delle macerie Viaggio al lenirò delle macerie La frontiera dei paesi che non ci sono più REPORTAGE UNA TERRA DISTRUTTA SELLANO DAL NOSTRO INVIATO Lì c'era la casa di Marco, quel bimbo (%.pian£g,,ppnje,dita negljcocchi. Aveva le mura bianche, di pietre spesse. Aveva le finestre sulla vallata, il tetto di tegole color della terra, «e aveva i disegni sulla parete», dice Marco. Solo il giardino è rimasto bello, con l'erba alta. E di là c'era la chiesa di San Silvestro a Villamagina: sembra l'abbiano presa a cannonate, con quello squarcio sull'abside, come un occhio nero, enorme, aperto sul vuoto. E' questo contrasto che colpisce, questo terremoto infinito che ha svuotato un pezzo del paese, che non l'ha ucciso e che non l'ha distrutto, ma gli ha tolto la sua identità, la sua natura, e l'ha divorato nel cuore. I campi attorno hanno la terra arata, le zolle rimosse e rivoltate come rigoglio dell'acqua, e ci sono ancora i segni della pace e del lavoro nei solchi lasciati dai trattori fra le biolche delimitate dai boschi e dai sentieri. Però, non ci sono più le case per dormire, non ci sono più le chiese per pregare, e non ci sono più le stalle per scaldare i vitelli, e non c'è più una osteria per rifocillare il viandante. Mancano anche Giotto giovane e Cimabue, è vero, ma non ci sono le scuole, i municipi, non c'è più la vita dei paesi. E' questo che ha ucciso il terremoto cominciato nel mattino del 26 settembre, questa sequenza di case abbarbicate attorno ai monumenti, questa vita tranquilla che ricordava la nostra infanzia. E uno se ne accorge risalendo da Camerino verso Serravalle e Colfiorito, e Cesi, e giù passando da Casenove e Pale verso Foligno, e risalendo poi per Sellano, e Montesanto e Preci e la Valnerina: uno se ne accorge fra questi paesi rovesciati, ormai tutti uguali gli uni agli altri, questi paesi che hanno perso le chiese e le case, qualche volta i cimiteri, ogni tanto il lavoro. Ce n'è uno, Montesanto, fra i bricchi dopo Sellano, dove c'era l'ultimo epicentro, che non esiste proprio più: era un posto piccolo di dodici abitanti e di un pugno di case comprate dai turisti di tutto il mondo e ristrutturate, era un gioiellino medioevale con la torre, la chiesa, i giardini, le case di pietra con la piscina. Il tremore della terra ha buttato giù tutto, ha bombardato le mura. Come la casa di Gianni Pastori, a Pale: «Ha fatto la fine che fa il sale nell'acqua bollente. S'è sciolta». La casa di sale stava dietro al monumento dedicato «ai figli caduti per l'onore e per la gloria d'Italia, 3-11-1919». Il monumento è rimasto. Due sedie attaccate alla base. La quinta della casa alle spalle. Mezzo piano. Solo quello. E più avanti, oltre le transenne, non si può andare. La chiesa è tutta crepata, «e il Fortini non ha più lavoro e anche Giuseppe Capelli che fa il magazziniere a Foligno adesso lo chiamano mezza giornata ogni tanto», spiega Carlo Innamorati, pensiona- to, da Pale, stretto nella sua tuta blu della Asics. Ha ragione lui: «Questo posto non lo riconosciamo più, è un macello, ma non tanto per quello che ha fatto. E' un macello per come ci riduce la vita». E' come se questo terremoto cancellasse l'Italia dei paesi, la sua cultura, la sua vita, la sua economia. Così, alla fine scopri che l'Italia che non c'è più è fatta di piccole cose, di mutui ancora da pagare, di miriadi di negozi con le saracinesche abbassate, di preti che fanno messa da un altare posato su una Cinquecento bianca o che vanno in giro corte don Raniero di Serravalle con la mamma di 90 anni per confessare gli sfollati, di Marco Fortini che non può vendere più il suo latte e passa le ore a guardarsi il suo cappone in giardino, di un tavolo da cucina rimasto intatto con le pietre sopra, in mezzo alle pareti sbriciolate fra i mucchi sparsi di polvere e di macerie. C'è una sedia capovolta, lì, e ti stringe il cuore. Ma è questa l'Italia che è sparita. E' fatta di numeri. 76 scuole chiuse fino all'altro ieri. Quattrocento monumenti definiti maggiori gravemente danneggiati in Umbria, e altri duecento nelle Marche. Nella sola diocesi di Foligno sono state sgomberate 16 chiese e programmato lo sgombero di altre 15. Quasi tutti i paesibanno perso la loro chiesa. I primi 54 «pronti interventi» delle Belle Arti sono già costati per ora 6 mila e 24 miliardi. Gli sfollati in Umbria sono trentamila. Poi ci sono quelli delle Marche, altri diecimila. E alla fine tutti questi numeri non bastano. Perché la sera fa freddo, è arrivato il primo nevischio sopra gli 800 metri. Molti non possono accendere le stufette elettriche, «perché se no salta la luce per tutti», come spiega Ugo Mayer, volontario boy scout in servizio alla tendopoli di Fabriano. E come ripetono sconsolati Domenica Prioreschi, Selia Benedetti e Luigi Ricci dalle loro roulottes di Colfiorito: «Al massimo possiamo accenderle qualche minuto prima di addormentarci». Ma è questa l'Italia che non c'è più, questo elenco di monumenti feriti, dalla basilica di San Francesco con gli affreschi di Giotto giovane e Cimabue, alla facciata di Santa Chiara tutta sbrecciata sempre ad Assisi, alia Chiesa di Bevagna e a quella di Montefalco, al tonino di Foligno con la sua piazza della Repubblica così assurda, così allucinante nel suo vuoto e nel suo silenzio rotto solo dai rumori delle impalcature; questo elenco di monu¬ menti, e poi questo viaggio nella sofferenza, nel distacco, nella paura, questo calvario che passa tra i villaggi sbriciolati. A Cesi prima di arrivare c'è un cartello: «Bar Alimentari Lo Spuntino, a 50 metri». Poi non c'è più niente, due case sbrecciate dove cominciava il paese, le transenne con i nastri, una jeep della forestale per scacciare quelli che con le carriole vanno negli scheletri delle case a recuperare le ossa, come succedeva ancora ieri a Montesanto, prima che arrivasse la Protezione civile. Doveva essere quello, Lo Spuntino, doveva essere quella casa grigia diroccata, a cielo aperto. Solo un balcone è rimasto in piedi, intat¬ to sulle macerie. Vicino c'è un altro edificio svuotato dalle mura, con la bombola del gas nel cortile. Galli e capponi che scorrazzano. «Stalle e fienili sfondati», come dice Lino Severini, «uccisi un migliaio di ovini recintati all'aperto. Corte nascono muoiono, perché fa troppo freddo». A Casenove è uguale, palazzi distrutti, la scalinata che porta alla città vecchia disseminata di calcinacci. Non c'è più nemmeno la caserma dei carabinieri, venuta giù come l'ufficio postale, come la chiesa. Paesi morti. Sùbito dopo c'è Leggiana, mura crepate, bar chiusi. E dalla parte di Sellano è la stessa cosa, da lì a Preci, un rosario di distru- zione, a Civitella, a Corone, non ci sono più case dove dormire, più chiese dove andare a pregare. Eppure, in tutto questo vuoto, fra questi paesi scomparsi, c'è come sempre l'Italia che resiste. A Sellano, Patrizia Melchiorre, la moglie del maresciallo, ha organizzato da sola la tendopoli nel prato della caserma e offre cioccolata calda a quelli che passano. E da Serravalle anche stamattina è partito don Raniero con la sua macchinetta e la mamma di 90 anni che non può lasciare sola. Lì, a Serravalle, c'era solo un geometra che sfidava tutti e andava lo stesso a dormire a casa, mentre la moglie urlava «attento attento!» e la terra faceva boati cupi. L'ultima volta che l'hanno trascinato via s'era fermato nel cortile piangendo a guardare le sue mura. Diceva «non è per la mia casa, non è per questo. E' perché niente sarà come prima». Ma nessuno gli dava ascolto. Nemmeno la terra. Pierangelo Sapegno