DA CASSOLA A BERARDINELLI CHI SCRIVE DEVE SPORCARSI di Osvaldo Guerrieri

Il CONSIGLIO Il CONSIGLIO di Osvaldo Guerrieri SE questa sera vi sintonizzerete su Raidue, assisterete a una singolare rappresentazione teatrale. Dalla diga del Vajont, per tre ore, l'attore Marco Paolini reciterà il monologo Racconto del Vajont. Lo spettacolo è nato nel '93. Da allora è stato recitato per circa trecento volte e ogni volta con grande successo. Racconta il disastro immane che nel '63 provocò duemila morti e cancellò dalle carte geografiche Longarone e altri quattro paesi della valle del Piave. Dal monte Toc si staccò una frana che si tuffò nella diga. L'acqua che ne evase seppellì tutto. Il monologo di Paolini-Vacis racconta quella vicenda. Ma non è un docu-drama. E', invece, una narrazione poetica e umana, che nasce dalla storia, utilizza documenti e testimonianze, ma li trasforma in creazione poetica. E' come se, per uno straordinario sortilegio, Paolini riuscisse ad ascoltare le voci dei contadini che abitavano quelle valli, ne rivedesse il profilo e, ascoltando e vedendo, facesse rivivere l'epoca degli affaristi e degli speculatori, quella delle proteste civili, delle resistenze frustrate dai tradimenti e l'epoca del lutto. Il monologo, non privo di spunti polemici, è divertente, ironico, bozzettistico. E naturalmente tragico. Il racconto del Vajont è stato appena pubblicato da Garzanti (pp. 142, L. 18.000). Vedrete che lo si può apprezzare anche alla lettura. * i Gli antropologi divisi: antidoto al neomagismo oppwe esprime un veteroilhaninismo? conti con le maghe culturali del suo tempo, ma alcuni suoi concetti scappano da quelle gabbie e parlano ancora. Per esempio l'idea di un soggetto, di un uomo che non è più dato una volta per tutte ma è «risultato continuo di una costruzione individuale e collettiva», come riconosce Clara Gallini, presidente dell'Associazione internazionale Ernesto de Martino. Per esempio ancora, l'importanza della dimen- Gli antropologi divisi: antidoto al neomagismo oppwe esprime un veteroilhaninismo? ICOMPARE, quasi mezzo secolo dopo, H mondo magico di Ernesto de Martino, e si porta dietro un intero clima culturale, un'accesissima serie di polemiche. Un libro che nella stessa sua storia editoriale reca i segni di un'avventura d'eccezione. Uscì nel '48 da Einaudi, dove inaugurò la celebre collana viola, quella «Collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici» curata personalmente da Cesare Pavese, con cui de Martino ebbe rapporti non certo facili. E fu ripubblicato nel '73 con una densa, molto remunerativa, introduzione di Cesare Cases, ora aggiornata. Un uomo inquieto e difficile, de Martino (1908-1965), un napoletano veemente, un etnologo e uno storico delle religioni che non trovava pace in nessuna comoda nicchia metodologica e filosofica. Teneva un ritratto di Croce nel suo studio, ma in questo Mondo magico si svincola, ritiene che il modo con cui i crociani intendono la storia è «pigro», «retorico», tale da ncn riuscire ad afferrare la realtà della magia. Per loro, pieni di «boria culturale», la magia è un universo troppo arcaico, troppo primitivo perché sia degno di assurgere alla storia: a loro interessa soltanto la civiltà occidentale, monumento a un tipo d'uomo adulto e compatto, fornito di preziose, altissime categorie mentali, che scandiscono, mettono ordine nella vita in tumulto; un uomo che è carne di uno Spirito che sempre diviene e si supera, teso ad altezze liberanti e vertiginose. d i i hi gInvece de Martino si china e studia i fenomeni e le storie di un'umanità che appariva minore e lontana. Esamina il piccolo specchio su cui uno stregone dei pigmei vede addensarsi una figura, il volto del ladro che tutti cercavano; segue gli otto fuochi accesi da uno zulù per rintracciare otto cacciatori dispersi: lo stregone getta alcune radici tra le fiamme, respira l'odore nauseante e il fumo denso che si sprigiona, lancia alcune pietruzze, entra in trance, legge queste pietruzze: un cacciatore è morto di febbre, un altro è stato ucciso da quattro elefanti, e così via. Nel secondo saggio del libro, de Martino interpreta una condizione particolare e diffusissima presso quelle popolazioni: una sorta di smarrimento, di perdita di coscienza, uno stato in cui l'io di una persona vacilla di fronte al mondo, sembra sgretolarsi nel terrore. C'è il malese che ode il muoversi delle foghe su un ramo, ma in realtà non ode, è come ferito da quell'evento comune che gli sembra smisurato e misterioso, e comincia a vibrare, a emettere sottili suoni agitati: cerca di stormire, egli stesso diventa foglia e ramo. E c'è il battaglione di cosacchi che non obbedisce ai comandi di un colonnello russo, ma ripete ad alta voce ogni ordine; e quando l'ufficiale, al colmo dell'ira, li offende, i soldati ripetono anche gli insulti. Un'ecolalia che è un nascondersi, un mimetizzarsi, un tentativo di sfuggire e d'ingraziarsi una potenza superiore. E c'è l'indigeno del Borneo che non si stacca mai da certe pietre a forma d'uncino perché gli trattengono l'anima, che può scappar via dalle narici, dalle orecchie, da una qualunque apertura del corpo. L'anima, il suo io, il suo stesso stare al mondo, quella che de Martino chiama «presenza» o «esserci» - con termini che sono di Jaspers e Heidegger - «è un uccello, una farfalla, un soffio». De Martino scrive qui le pagine più belle del libro. Ghel'hanno riconosciuto tutti i lettori. Ha passione, lucidità, stile. La magia non è per lui un mondo basso di superstizioni cieche, ma è cultura, è la risorsa con cui si ricompone quell'autentico «dramma» che è la «crisi della presenza», lo sbriciolarsi di ogni senso e forza nell'esser vivi: un franare non privo di somiglianze con il dolore di uno schizofrenico. L'uomo d'oggi è partito di lì, non è caduto dal cielo. De Martino recupera così alla storia quelle civiltà, contro la supponenza degli irrazionalisti e degli idealisti. Un'impresa, da noi, allora. Il suo è uno «storicismo eroico» che si batte per un «neoumanesimo». E' a questo punto che si aprono ancora oggi le discussioni. Proprio il «prendere sberle prima dai ero ciani e poi dai marxisti ortodossi», come dice l'antropologo Ugo Fa bietti, garantisce anche a questo de Martino - prima delle famose ricerche sul campo nel nostro Sud una speciale attualità e apertura sul presente. In qualche modo egli era un irregolare costretto a fare i sione simbolica, che «non è né vera né falsa, ma semplicemente reale». E tuttavia anche i suoi amici più fedeli, come Vittorio Lanternari, che sta per pubblicare da Liguori La mia alleanza con de Martino, si trovano costretti ad alcuni distinguo: la magia oggi imperversa, e per di più sale dai ceti poveri ai ceti ricchi; non è dunque un fenomeno legato à una vita misera economicamente e psicologicamente, come pensava de Martino. «Siamo invasi da un neo-sciamanesimo - esclama allarmato Lanternari - , De Martino non ci basta più». Qualche distanza la prende pure l'antropologo Francesco Remotti: certo l'intuizione del «dramma», della «presenza» in bilico, e lo scrutare le dorsali profonde dell'animo umano, sono cose vicine ad alcuni sviluppi attuali dell'antropologia; però non è più accettabile il privilegio accordato da de Martino alla civiltà occidentale, come non è più valida la sua idea di ragione che si contrappone alla magia: molto meglio una concezione di ragione plurale, articolata. Eppure sono proprio questi gli aspetti che più piacciono allo psicologo Giovanni Jervis, che ricorda de Martino, uno dei suoi maestri, anche nelle pagine del suo ultimo libro, il recente La conquista dell'identità (Garzanti): de Martino per Jervis «restava ben saldo dentro la cultura occidentale, illuministica», il suo era un «etnocentrismo critico». Per questo c'è oggi tanto interesse per lui: proprio perché il suo sguardo sul mondo magico era «rispettoso ma anche critico». De Martino è pertanto un «antidoto al calderone dell'attuale neomagismo». Senza appello è invece la condanna di Elémire Zolla, l'autore di I letterati e lo sciamano (Bompiani, '69): Il mondo magico è per lui un libro «morto», e la soluzione data allo sciamanesimo, che precederebbe l'apparire delle categorie crociane, è «grottesca, comica». Zolla frequentò per un po' de Martino, e ricorda bene quei «terribili Anni 50» e le accuse di «irrazionalismo e decadentismo» che a lui, Zolla, piovevano addosso da tutte le parti. «Lo sciamanesimo è oggi un'esperienza scontata. Negli Stati Uniti c'è perfino chi lo insegna. Andiamo avanti, andiamo avanti». Claudio Altarocca DA CASSOLA A BERARDINELLI: CHI SCRIVE DEVE SPORCARSI CONVERSAZIONE SU UNA CULTURA COMPROMESSA Carlo Cassola, e/o, pp. 124, L B000. L'EROE CHE PENSA Alfonso Berardinelli, Einaudi pp. 208. L 22.000: CONVERSAZIONE SU UNA CULTURA COMPROMESSA Carlo Cassola, e/o, pp. 124, L B000. L'EROE CHE PENSA Alfonso Berardinelli, Einaudi pp. 208. L 22.000: A ci si può impegnare su tutti i fronti? Chi ieri era comunista e lavorava per fare il comunismo, può oggi essere un'altra cosa e lavorare per fare una cosa diversa o contraria al comunismo? Dovrebbe prima attraversare quella che si chiama la «crisi», e che Moravia definiva «il più grande dolore che si possa soffrire in terra» (voleva dire: un dolore tale da eguagliare l'Inferno). Mi pongo il problema quando ascolto dei politici o leggo degli autori che ieri erano impegnati e che oggi sono impegnati: ieri per il comunismo, oggi per ben altro. Cerco, in mezzo, la «crisi». Se non c'è, o era falso l'impegno di ieri o è falso l'impegno di oggi. D'altra parte, la continuità nell'impegno, quando la storia lo ha dimostrato impossibile o catastrofico, è la caduta nel fuoristoria. E' il caso (esprimo un parere personale) di autori grandi, come Volponi, e critici grandi, come Asor-Rosa. C'è maggiore coerenza in chi prende atto che ciò per cui lavorava è diventato non solo impossibile ma anche impensabile e indicibile, ma di ciò che ne ha preso il posto critica gli aspetti inaccettabili in nome della propria cultura: lo fa Spinazzola, lo fa Ferretti, col rifiuto del «mercato». Lo fa Berardinelli. Berardinelli in realtà ha sempre avuto verso il cosiddetto «impegno» di ieri più attenzione che adesione, e questo lo abilita a ritornare oggi sugli autori che leggeva ieri, e rileggerli aggravando le riserve, senza contraddirsi. C'è evidentemente bisogno di una nuova «ragione» (una nuova «mozione», direbbe Fortini) per scrivere. Si scrive per qualcosa che non è soltanto lo scrivere. Uno degli ultimi scrittori che credevamo sensibili ai temi esistenziali e insensibile ai temi storici, Carlo Cassola, ritorna adesso in una appassionata conversazione sul suo impegno, che sta a monte di ogni altro impegno, perché non è politico, non è ideologico, è esistenziale: l'impegno per la sopravvivenza dell'umanità. Cassola scriveva sotto l'incubo (o minaccia o ricatto) dell'atomica. Con l'atomica, diceva, comincia un'epoca in cui ci dev'essere l'arresto della storia in nome della vita: non conflitti non armi non eserciti non competizioni: la stasi totale, pena la sparizione. Questo traguardo non era trattabile: andava posto senza condizioni: «Primum vivere, deinde philosophari». Cassola aveva un bersaglio: l'art. 52 della Costituzione, che stabilisce il «dovere sacro» di difendere la patria. Chiedeva un disarmo unilaterale dell'Italia. Lo chiedeva non come un «minimo» ma come un «massimo»: il traguardo della pace è superiore al traguardo della libertà (perseguito dagli anarchici) o della giustizia (perseguito dai comunisti). A rileggerlo oggi, quel discorso, non c'è nulla da obiettare: è bene che sia stato espresso. Ma è un bene maggiore che non sia mai stato attuato. Dalla morte di Cassola ad oggi abbiamo avuto guerre anche ai confini di casa, minacciavano di spararci missili fin dentro Ancona. Non solo Carlo Cassola: le edizioni e/o ripropongono una sua intervista su intellettuali e impegno. Al rapporto tra scrittura e ideologia sono dedicati anche i saggi di Berardinelli chi era disarmato, ma anche chi era poco armato è stato sbranato. Inattaccabile sul piano teorico, l'impegno di Cassola è improponibile sul piano pratico. Urta contro tre obiezioni: 1) disarmare è una maniera di amare, ma di amare la pace, non l'uomo; 2) chi si disarma ama il nemico più di se stesso; 3) lungi dal disarmare gli eserciti, si parla di armare l'Onu. Cassola scriveva anche sui giornali. Non erano gli scrittori che potevano metterlo in crisi. Erano i giornali. Non la letteratura, ma la cronaca. Non credo perciò alla «scrittura sui giornali» come un abbassamento degli scrittori, come «abuso della parola», che è quel che a un certo punto dice Berardinelli. Credo anzi che scrivere sui giornali serva allo scrittore. Gli fa bene. Berardinelli ha più di un sospetto verso l'età dell'impegno, dell'egemonia del Pei, del fare letterario come fare politico. Scorre sui tentativi di contatto e di reciproco condizionamento tra letteratura e politica, intelligenza del mondo e potere sul mondo, per mostrare come l'incastro non si completi mai, e puntualmente scatti il rigetto: scrittori comunisti e l'Urss, Simone Weil e il Cristianesimo, Sartre e il comunismo, Rushdie e l'Islam... Questo libro, scritto in un decennio, molto ricco (anche troppo; imbocca diversi sentieri, non tutti nella stessa dire- La contesa