FEDE E BELLEZZA NEI CAPOLAVORI di Lorenzo Mondo

IL CONSIGLIO IL CONSIGLIO di Michele De Mieri IL lungo tempo trascorso dalla prima edizione, sedici anni fa, alla recente riproposizione in tascabile di uno splendido libro come Dino Ruzzati al gira d'Italia (Oscar Mondadori, pp. 196, L 12.000) conferma, ancora una volta, un vecchio luogo comune delle nostre lettere: occuparsi, scrivere di sport è una cosa quasi disdicevole, un vizio privato o, in alcuni casi, una necessità alimentare degli anni più bui. Il Giro d'Italia raccontato da questi ventiquattro articoli, scritti per il «Corriere della Sera», è quello del 1949; B uzzati è già una grande firma delle pagine culturali, ha già scritto e pubblicato molti dei suoi libri più importanti, quando - seguendo uno dei tanti duelli di quegli anni tra Bartali e Coppi decide di ammantare con il suo mondo poetico fatto di attese eterne, di sinistri presagi, di spazi e tempi tangibili, le quasi quattro settimane del Giro. E' una storia di piccoli uomini dalla faccia impastata di fango e sudore, quasi dei soldatini, con due soli eroi-generali ad attirare l'attenzione dell'Italia povera e disastrata quella che Buzzati tesse tappa dopo tappa. E se Buzzati cronista sportivo è tenuto come a balia dai vecchi inviati al Giro e qualche volta mostra di non conoscere, o di essere impaziente verso i tempi, le strategie la potenza dei due campionissimi (fino a dubitare in un punto quasi della loro supremazia) quando invece si libera della pura dinamica dei fatti giornalieri il narratore ha il sopravvento e lascia sulla carta pagine bellissime, come quelle dei morti della battaglia di Cassino che sorgono dalle tombe, svegliati dal passaggio della corsa, o ancora quelle sui (vani) sogni notturni dei gregari, fino alle parole di presagio sulla resa di Bartali: «A un tratto, tu lo sai, il misterioso genio ti dovrà lasciare. Nel mezzo di una corsa, all'improvviso, ti sentirai stranamente solo: come un re in battaglia che, voltandosi indietro per impartire gli ordini, non scorge più il suo esercito, dissoltasi per incanto nei nulla». giata ad ima penetrante e puntigliosa conoscenza di spartiti e documenti), si prende carico, ma con evidente senso della misura. Leggiamo le quasi trecento pagine del romanzo, e vediamo scorrere sotto i nostri occhi la nascita oppure l'esito di opere notissime, come Le nozze di Figaro, o d'altre note ai ferventi, come tre concerti per piano del 1782-'83; un capitolo, il nono, è dedicato al Corno di bassetto (non diremo, per complicità, altro); un altro, tra il diciassettesimo e il diciottesimo e ultimo, si intitola, perentoriamente, alla Cadenza. Ma non siamo, mutato soggetto e ambiente, ad un manniano Doktor Faustus con tanto di teoria della musica ricreata dal narratore e messa in bocca al protagonista. Siamo, semmai, ad un'avvincente «inchiesta», ad una sorta di ((giallo comportamentale» sullo sfuggente profilo di una personalità, in tutti i sensi, diversa e superiore. Questa inchiesta è condotta, ma indirettamente e (per così dire) inconsapevolmente, dalle persone che amarono Mozart e lo odiarono, da coloro che ne subirono l'irresistibile potere d'attrazione e da quanti non lo compresero affatto, giungendo ad esprimere su lui giudizi così stupidamente derisori che si commentano da sé. Il tema, dunque, de I bei momenti mi sembra essere quello che Siciliano più gelosamente si porta dentro e più caparbiamente coltiva dagli ormai lontani esordi dei Racconti ambigui (1963): la vita (qui di Mozart, ma, entro più umili contorni, di ciascuno di noi) come un persistente, sottile «patimento», come un «turbamento mai sopito per qualcosa di non concluso, di imperfetto» (questo di noi verso noi stessi): e di noi verso gli altri, la vita come qualcosa di «non... mai ricomponibile», qualcosa che da sola «si incenerisce, si trascina nel nostro cuore come un'eco che non si estingue»: e che, proprio per questo, non potremo mai agli altri compiutamente esprimere, mai potremo con gli altri veramente condividere. L'amata e disamata e spesso tradita moglie Constanze (era la nipote di Karl Maria von Weber), l'adorata sorella di lei Aloysia, che Amadeus amò imperiosamente per essere infine da lei respinto, sopravvissero, in effetti, di gran lunga al loro congiunto. Siciliano prende pretesto dalla loro longevità per innestare alcune soltanto delle ricche varianti costruttive della sua narrazione, che si ammira, tra l'altro, per la sua sapienza architetturale. In una narrativa come quella italiana d'oggi, in cui sembra non contare più nulla l'idea che un romanzo è anche un «progetto» (l'idea per cui si batterono su diversi fronti, quello della riflessione critica e quello dell'ideazione, due scrittori come un Manganelli e un Calvino), I bei momenti, con la sua continua varietà di prospettive, con la sua mutevole strategia d'angoli visuali, colpisce e affascina. L'incontro di Constanze e di Aloysia con due zelanti coniugi inglesi nella Vienna del 1829 ci proietta a trentott'anni dalla scomparsa di Wolfgang: ma se il narratore ci conduce così distante dai fatti, nel capitolo seguente imperiosamente ci rimena a ritroso nella Mannheim del 1778... Se prima eravamo invitati ad assistere ad un'intervista, ora ci vediamo alle prese con appunti del medesimo Mozart; poi con una pagina di diario di Constanze. Ora è una lettera occasionalmente ritrovata a farci da guida, ora sono dei fogli sparsi d'appunti di mano d'Amadeus; qui è il cognato attore Joseph Lange (autore anche d'uno strano ritratto del Nostro) a dettare, sette anni dopo il trapasso, alcune sue considerazioni; là è il secondo marito di Constanze, Georg Nikolaus von Nissen, a ritrovar per caso una lettera del musicista. Si è, sulle prime, un poco frastornati dal caleidoscopio in cui Siciliano ci induce a guardare, poi il fascino, lievemente torbido, della quòte a cui ci invita, ci conquista. Vorremmo, ad ogni svolta, sapere, capire di più del vertiginoso protagonista: ma l'indagato, non certo per ignavia, ma sotto la morsa d'un qualche fato a lui avverso, non sembra riuscire a liberarsi del fitto bozzolo in cui è incapsulato. Guido Davfco Bonino FEDE E BELLEZZA NEI CAPOLAVORI MUSICA DISTANTE Emanuele Trevi Mondadori pp. 154 L. 25.000 MUSICA DISTANTE Emanuele Trevi Mondadori pp. 154 L. 25.000 CPJVENDO Musica distante, Emanuele Trevi si è lasciato guidare da questa persuasione: che sia una delle prerogative della letteratura vedere i miracoli nella trama della realtà oggettiva, gettare un ponte tra la verità e il mistero, celebrare perfino il rapporto «di reciproca santificazione che unisce l'Assoluto al Quotidiano». Per parte sua, lo interessa indagare, attraverso le forme della letteratura, e subordinatamente dell'arte, la natura del Bene. Con queste intenzioni, ha utilizzato come griglia uno dei codici più duraturi del pensiero cristiano e occidentale: il sistema delle virtù, in cui i Padri della Chiesa hanno integrato le quattro vùtù cardinali, elaborate dal pensiero greco, con le tre virtù teologali che le proiettano in una dimensione soprannaturale. Prudenza, giustizia, fortezza e temperanza coniugate con fede speranza e carità. Un edificio conoscitivo e morale che ha esercitato un grande fascino perché presentava un ideale di perfezione alla portata di tutti nella vita ordinaria, dotato di ima «sorridente universalità». L'autore non si nasconde che il suo discorso può apparire di clamorosa inattualità, esposto perfino all'incomprensibilità semantica dei termini di riferimento. Ma affronta la scommessa di cogliere nella lettura di testi moderni, condotta magari per frammenti e luoghi privilegiati, un lucore solitario o spento, l'allusione a una felicità cui il sistema delle virtù promette l'accesso. E' un metodo serrato e insieme aperto, che ci avverte di quanto sia impegnativa e provvisoria la ricerca. fi i ril i d pLa verifica si rivela piena di sorprese. Fin dall'avvio che è dato dalla favola di Amore e Psiche quale appare nell'«Asino d'oro» di Apuleio. Il Dio che si nega alla vista della persona amata, e che soltanto sotto il velame della notte si concede, afferma, insieme al limite rigoroso della conoscenza per fede, l'maffidabilità delle parvenze corporee. Questa qualità notturna ricollega, con un trapasso abbastanza naturale, il pagano Apuleio a San Giovanni della Croce; ma le sollecitazioni sottili di Trevi la estendono al laico turbamento espresso nella «Gita al faro» di Virginia Woolf . Lily Briscoe abbandona, riprende e conclude il suo dipinto in virtù delle lacrime che l'accecano e le danno coraggio. Nella fatica e nella frustrazione della creazione artistica viene così adombrato l'itinerario della fede attraverso l'oscurità e l'assenza. Con grande eleganza e levità che è insieme intellettuale e morale - Trevi si aggira, cercando, nel fluire dei secoli e della scrittura. Per la speranza, si affida al «Manuale» di Epitteto tradotto da Leopardi, avventurandosi poi nella scia rapinosa del «Moby Dick» melvilliano e nella deprimente bonaccia della «Linea d'ombra» conradiana. Prende terra con Alain-Fournier che, con una straordinaria inversione, trasferisce la speranza dal futuro a ciò che è già accaduto: nella memoria, nell'ingresso avvenuto per una volta sola e per sempre nel fatato «domarne» di Yvonne de Galais. Quanto alla carità, il mantello diviso con il mendicante dal San Martino di Simone Martini, si spezza ulteriormente nelle pagine e nei gesti di Angela da Foligno, Flaubert, Cecov, Bulgakov, Ka fka... Attraente tra tutte, per pene trazione critica e simpatia di lettura, l'analisi svolta sul racconto Alain Fournier «I morti» che, a chiusura dei «Dubliners», rivela in Joyce una «veggenza di sciamano». Nella piatta prevedibilità di una festa, Gretta sente l'eco di una cantata irlandese che le consente di rendere giustizia, nella memoria e nel pianto, al ragazzo che tanti anni fa è morto per lei. E' questa la «musica distante» che incanta Trevi e che è l'emblema di una ricerca simbolica animata da una asciutta tensione morale. Mi sembra un'attitudine piuttosto inconsueta da noi, qui si affacciano semmai altre parentele. Flannery O' Connor e Simone Weil sono due poh dichiarati. Ma, a un livello più propriamente critico, viene in mente George Steiner, che ha l'ardire di chiedersi se Shakespeare non sia diminuito nella sua statura dalla mancanza di una chiara professione di fede in Dio o del suo rifiuto, dalla incapacità di dire «altro», di aprire la sua musica al «commercio con il mistero» (v. «Nessuna passione spenta», Garzanti). L'autore di Musica distante non pretende ovviamente di esaurire con la sua «ermeneutica morale» la complessità di un'opera creativa. Mette le mani avanti, affermando che la sua disciplina dell'interpretazione parallela alla ricerca del Bene è rivolta soltanto a lettori congeniali. Tale mi professo con vivo apprezzamento, che sarà condiviso da chi chiede alla sovranità della letteratura alte interrogazioni, il corpo a corpo della bellezza con la verità. Lorenzo Mondo

Luoghi citati: Cassino, Foligno, Italia, Trevi, Vienna