Gli irriducibili dell'anzianità di Gad Lerner

ÌUi 9/ÌO BfiOSlSCf £ 6H JM Èst'..: ""..' ' -é li iidibili dllii fJM Èst.:é Gli irriducibili dell'anzianità 77 Welfare mina ilprimato Cisl al Tesoro LA RIVOLTA ■pm 3 QÌììit .i ijROMA A crisi d'autunno del govermSÈ no Prodi non è tutta politica. Se a scatenarla è stata l'ipotesi, ancora neppure formalizzata, di un taglio alle pensioni di anzianità, vuol dire che dietro a Cossutta e Bertinotti c'è un'Italia profonda che nulla ha a che fare con la rifondazione del comunismo ma non per questo è meno irriducibile. Non sarà allora il caso di andare a sentire le buone ragioni di questi strenui resistenti senza tessera e senza ideologia? Lontano dalle zone rosse e dalle grandi fabbriche, li incontriamo fin dentro al tempio del potere economico, solo due piani sopra l'ufficio di Carlo Azeglio Ciampi. Siamo nel grande pascolo impiegatizio della Cisl ministeriale, regno in passato della democristianità, ed è qui che vi suggeriamo una visita ai ventenni e ai venticinquenni del ministero del Tesoro. Per gli immani corridoi ministeriali di via XX Settembre, in verità, si aggirano contabili incanutiti, procaci quarantenni segretarie di direttori generali, impiegati meridionali dai grossi anelli d'oro e pietre, dirigenti stempiati in grisaglia fino a un totale di oltre quattromila dipendenti. Di ventenni e venticinquenni neanche l'ombra, nella Mirafiori degli statali romani. E' il gergo ministeriale che allude amaramente all'età contributiva in luogo dell'età anagrafica. Insomma, ventenni e venticinquenni sono i famosi impiegati statali che, lavorando sulle medesime scrivanie fin da quell'ultima stagione d'oro del pubblico impiego che furono gli Anni Settanta, oggi potrebbero già andare in pensione se le regole non fossero cambiate dal '92 in qua. Come i cinquantenni operai della Pirelli Bicocca in produzione fin dall'adolescenza, anche gli impiegati del Tesoro sono in grado di dimostrarti che hanno già dato parecchio. E anche per un sindacato «bianco» come la Cisl la corda tesa potrebbe spezzarsi da un momento all'altro. Non è davvero invidiabile la posizione di Rino Tarelli, il segretario nazionale degli statali e parastatali Cisl che mi accompagna, benché la storia mai scritta del sottogoverno italiano attribuisca ancor oggi ben il 37% degli impiegati ministeriali al sindacato in origine più vicino alla Democrazia cristiana: sono troppi anni ormai che i confederali non hanno più scatti di carriera e privilegi da contrattare con la burocrazia ro mana. Tarelli si lancia entusiasti camente sulla via dell'aziendalizzazione e della produttività, per- dendosi solo quando deplora - testuale - «le coriandolizzazioni di adempimenti tra loro equipollenti» (che poi sarebbero lo sproposito di mansioni impiegatizie che la burocrazia vieta di riunire). Ma alla fine la sostanza di Tarelli è questa: come faccio a chiedere agli statali di lavorare più a lungo se da anni gli nego uno scatto d'anzianità, una prospettiva di carriera, e invece passo il tempo a bastonarli in nome dei privilegi goduti dai loro predecessori? Gianfranco Massarella è un sindacalista del Sud senza peli sulla lingua: «Io Li incito, i miei colleghi. Se puoi andare in pensione, vattene! Oggi almeno sai che un minimo te lo danno. Domani rischi che manco a 65 anni prenderai abbastanza da vivere». Ben più della propaganda di Massarella conta l'ansia di regole previdenziali traballanti, giunte alla terza modifica in cinque anni. Fatto sta che il dieci per cento dei dipendenti del Tesoro ha fatto domanda per andarsene. Magari tra mille incertezze, perché la pensione oggi comporta comunque una forte perdita economica rispetto allo stipendio: «Nel mio dipartimento c'è un tale che quest'anno ha già presentato e ritirato la domanda non una ma quattro volte», racconta il dottor Mezzaroma. E al sindacato ora si chiede di accalappiarli come topi in fuga? Sono intimoriti davanti al taccuino, questi pensionano!, quasi che non fosse decente esibire in pubblico la famosa domanda. Ma ecco un settimo livello, la fascia più elevata in cui si raccoglie un buon quarto degli impiegati, tirare fuori le cifre. Si chiama Luigi Ingrassia, ha 55 anni e un mestiere kafkiano (spedisce multe ai riciclatori di denaro sporco senza ovviamente illudersi di ottenerne alcuna risposta): «Vuole sapere la verità? Eccola. Il mio collega andato in pensione pochi anni fa a fine carriera con la vecchia normativa prende 2 milioni e 450 mila lire, e riesce a fronteggiare il costo della vita. Chi va oggi in pensione con lo stesso stipendio prende 2 milioni e 100 mila lire. E nel 2005, quanto prenderemo? Io ho già calcolato di aver perso mezzo milione tra il '93 e oggi». La retrocessione economica è dunque già in atto da tempo, niente più scatti di anzianità da undici anni, e nel '95 la riforma Dini ha diminuito il trattamento pensionistico dal 94% al 78% dell'ultimo stipendio. «E' a questa gente - spiega Enrico Bernardini - che noi sindacalisti dovremmo andare a dire: fidati del patto che stipulo col governo, perché anche se nell'immediato ti rinvia l'anno di pensionamento è il solo modo per garantire il futuro tuo e dei tuoi figli. Sa come mi rispondono? Che l'avevano già sentito nel '95 questo identico ritornello». Incalza Mario Ginzarelli: «Sa cos'ha voluto dire per noi la riforma Dini? Tre anni di lavoro in più e 300 mila lire di pensione in meno. Ci va lei in assemblea a spiegargli la quota 90 o qualsiasi altro marchingegno». Già, la mitica quota 90, che poi vorrebbe dire che in pensione ci può andare solo chi - sommando l'età anagrafica agli anni di contributi versati - raggiunge per l'appunto la cifra 90. Alza la mano un impiegato dall'aria giovanile e scanzonata, Leonardo Marchitelli: «Prego, le faccio da cavia. Esamini pure il mio caso, che poi a me non piace neanche l'idea di fare il ministeriale perché mi sento scrittore, autore di teatro. Ma evidentemente ho sbagliato tutto nella vita, perché quando sono entrato qui contavo di non starci più di 25 anni prima di andare in pensione, e comunque di avere i pomeriggi liberi, visto che l'orario finiva alle 14». Qual è la catena di delusioni collezionate dal nostro impiegato, che nel frattempo ha compiuto i 53 anni e ne ha lavorati qui dentro già 29? E' presto detto. Lavora quasi sempre anche al pomeriggio, non ha avuto neanche uno scatto di carriera, e in pensione anticipata con le leggi in vigore potrebbe andarci sì - anche subito - ma percependo solo un milione al mese. Troppo poco per viverci. Ma è quando lo misuriamo con la quota 90 che il nostro Marchitelli sobbalza. Dunque, 53 anni d'età più 29 d'anzianità, fanno quota 82. Caro Marchitelli, lei dovrebbe lavorare ancora 4 anni per raggiungere i 90. Cioè dovrà aspettare di averne 57 (o addirittura lavorare altri 8 anni e raggiungere i 61 di età?). Niente male, per un impiegato che al suo primo giorno di lavoro prevedeva di andarsene in pensione a 49 anni. E' inutile girarci intorno. Certo, c'è preoccupazione per la buonuscita di fine rapporto che dovrebbe confluire dentro fondi previdenziali ancora fantomatici. C'è l'invidia per l'ex ferroviere riciclato nel ministero che prende pure la quattordicesima. C'è il direttore generale Mario Draghi che assume manager esterni negando prospettive di carriera a chi sta sotto. Ma tra questi impiegati lontani anni luce da Rifondazione comunista l'incubo numero uno resta sempre quello: potremo andare in pensione come previsto? E la pensione ci darà abbastanza per vivere bene? Se Sergio D'Antoni, proprio come Fausto Bertinotti, non ha fin qui mai ammesso in pubblico la necessità di porre un freno all'exploit delle pensioni d'anzianità, è probabilmente perché conosce bene questi suoi iscritti di via XX Settembre e di tanti altri analoghi palazzoni. E' un rebus maledettamente complicato. Dipende anche da loro e dalle loro buone ragioni se il 1997 non verrà ricordato come l'anno della grande riforma. Gad Lerner

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