Ma la pittura è secessionista? di Marco Vallora
Ma la pittura è secessionista? Ma la pittura è secessionista? E, in fondo una curiosa nemesi che perseguita la pittura italiana dell'Ottocento, oggi salita anche alle cronache della pubblicità televisiva per l'iniziativa delle dispense De Agostini, che infiltra Telemaco Signorini insieme ai Buondì Motta, Mpsè Bianchi tra parmolini e fissativi per dentiera (e speriamo che almeno nel caso della «reclame» transnazionale si dimentichi la parcellizzazione regionale). Nemesi, appunto, non tanto nel senso ancora longhiano (che la nostra pittura di paesaggio e di genere non possa rivaleggiare con il realismo di Courbet o l'«en plein air» dei cugini impressionisti) ma nel senso proprio del protrarsi di questa cappa oppressiva delle scuole locali, che spengono ogni illusione di poter criticamente sprovincializzare quelle alte esperienze. Ma è ancora possibile considerare riduttivamente Fontanesi un pittore piemontese (per di più nato a Reggio Emilia) che equivarrebbe a definire Courbet un pittore della France-Comté o Cézanne un artista provenzale? Certo, le scuole regionali, le aree d'influenza sono fondamentali, nessuno sarebbe così sciocco da negarlo, Correggio non poteva che uscire dal lievito parmigiano, così come Rosso Fiorentino dalla costola toscana. E bene lo ha testimoniato la grande iniziativa Electa della Storia dell'Arte Italiana, divisa appunto per aree locali. Ma è incontrovertibile che nessuno penserebbe ad esporre Canova soltanto in una mostra di scultura veneta o Felice Giani tra i Neoclassici Piemontesi (e chi si ricorda, del resto, che lui è nato in un paesino non lontano da Tortona?). Perché, invece, con il sopraggiungere dell'Ottocento diventa così automatico parlare di vedutismo napoleta¬ no, si fanno pressoché solo rassegne di Macchiaioli Toscani o di Paesaggisti Piemontesi? E' forse lo strapotere delle Società Artistiche Locali, che finiscono paradossalmente per danneggiare i loro appoggiatissimi pupilli, o si tratta' davvero di una regionalizzazione del gusto, che va analizzata anche in senso etnico-folklorico? Ed è curioso vetrificarlo anche con questa mostra di Vercelli. Perché se in catalogo Marco Rosei e Rosanna Maggio Serra si premurano di ricordare proprio tutti gli strenui tentativi di sfuggire a quella rischiosa «suddivisione paritetica per scuole regionali che sminuiva e provincializzava» ogni slancio di autonomia nazionale (le iniziative pionieristiche di Casorati e Sartoris, che nel 1926 tentavano di miscelare i macchiaioli toscani con i paesisti piemontesi; la Storia dell'Arte di Corrado Maltese che combatteva contro i pregiudizi localistici dei Somare e degli Ojetti; le prime autorevoli monografie come testimonianza di una «koiné che unisce, al di là di scenari nazionali, gli italiani e i tedeschi, gli austriaci ai russi») ebbene, poi però, paradossalmente, la mostra si chiama ancora «Capolavori della Pittura Piemontese dell'Ottocento». Cercandovi di annettere pure l'orientalista Pasini di Busseto, soltanto perché aveva villa a Cavoretto (ma frequentava Barbizon e lo studio di Chassérieu e viveva tra la Turchia e il Libano) o il povero De Avendano nato e morto nella sua Spagna. Il tutto paragonandoli però poi a Boudin e Repin, a Corot e Meissenier. Una strana contraddizione. A quando, dunque, una mostra di Vedutisti Padani con saggio filologico di Bossi (Umberto)? Marco Vallora
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