E' l'Oceano Atlantico a fare il nostro clima

E' l'Oceano Atlantico a fare il nostro clima E' l'Oceano Atlantico a fare il nostro clima . 1 SV= 1 milione *>V di metri cubi a! secondo 11 p PORTATA DEL "NASTRO" DI ACQUA TEMPERATA DELL'OCEANO ATLANTICO SE la guerra è una cosa troppo seria per lasciarla in mano ai generali, come disse Clemenceau, il futuro del nostro pianeta è una cosa troppo seria per lasciarlo in mano solo ai politici e diplomatici ai quali tocca il poco invidiabile compito di suggerire le tabelle di marcia dello sviluppo per i prossimi decenni. Il contributo degli scienziati per capire quel complicato sistema che è il clima è essenziale nel processo decisionale. Ciò è particolarmente vero in vista dei nuovi risultati scientifici di cui parlerò in quest'articolo e della prossima, importante riunione a Kyoto a dicembre, dove ci si aspetta che si stabiliscano i limiti di emissione dei gas serra per i vari Paesi. Compito, diciamolo chiaramente, quanto mai difficile. Il clima è come un animale dall'apparenza mansueta ma che può scattare a stati di «ira funesta» quando la provocazione superi una certa soglia, passata la quale non si può più tornare allo stato iniziale. Detto in altri termini, il sistema clima, atmosfera più oceani, possiede vari stati di equilibrio; non tutti però sono favorevoli alla vita su questo pianéta. Quantificare tali stati è tutt'altro che facile data la nostra incompleta conoscenza del fenomeno clima, definito «la media del tempo su un periodo di trent'anni». à il li di ossi un periodCome sarà il clima dei prossimi 50-100 anni? I parametri generali sono noti. La C02 (anidride carbonica) che potenzia l'effetto serra è in aumento: prima della rivoluzione industriale la sua concentrazione era dello 0,028%, oggi è del 30% maggiore, risultato delle attività umane come la combustione di carbone, petrolio, gas naturale nonché deforestazione. di t nonchSe continuiamo di questo passo, quando la C02 si sarà raddoppiata, la temperatura media del nostro pianeta potrà essere 2-4 °C superiore a quella di oggi. Ma ci sono altri pericoli Uno studio appena uscito su «Nature» dimostra che il termostato oceanico è sensibilissimo anche al ritmo con cui aumentano igas a effetto serra assai più insidiosi che solo ora stanno venendo alla luce. Uno di questi è stato svelato da uno studio portato a termine a Berna da Stoker e Schmitter, apparso sulla rivista inglese «Nature» il 28 agosto. Poiché gli oceani possiedono grande inerzia termica, essi rispondono molto lentamente a perturbazioni esterne: un'azione di oggi non si rivelerà se non fra molti decenni. Ecco perché gli oceani sono oggetto di tanta attenzione: hanno una scala di tempi tipica del clima, non già del «tempo», che è invece governato da fenomeni con scale di tempi più corte, come appunto i fenomeni atmosferici. Abbiamo già avuto modo di discutere sulle pagine di questo giornale le caratteristiche più salienti del grande «nastro» dell'Oceano Atlantico, il serpentone d'acqua responsabile del clima moderato che ha permesso all'Europa di fiorire mentre Paesi alla stessa latitudine sull'Oceano Pacifico sono sotto zero, il che si deve al fatto che c'è poca evaporazione, il che in ultima analisi è dovuto alla bassa temperatura. La quantità di calore rilasciata dal nastro atlantico nelle regioni dell'Europa del Nord è prodigiosa, un milione di miliardi di watt! Sappiamo da studi di paleoclimatologia che circa 11.000 anni fa, il nastro si spense pochi decenni, per poi risuscitare. Come per il diavolo, il suo peggior nemico è l'acqua, non quella santa ma quella dolce, quella piovana, non salata, che 10 rende meno pesante (denso) e quindi meno incline a sprofondarsi nei fondi marini dove inizia il suo viaggio attorno al mondo. Il suo secondo nemico è la temperatura che, qualora si alzasse, renderebbe l'acqua più leggera e quindi, di nuovo, meno disposta ad affondarsi. Ma questi sono proprio due fenomeni prodotti dall'effetto serra: più precipitazioni al Nord e riscaldamento delle acque superficiali. Se tale nastro dovesse collassare, addio Europa: buona parte di essa si popolerebbe di renne. Quello che successe 11.000 anni fa, un decesso temporaneo del nastro, non fu dovuto a un aumento della temperatura poiché eravamo in un'era postglaciale, ma all'arrivo nell'Atlantico di una grande quantità di acqua dolce dovuta allo scioglimento di ghiacciai del continente americano che normalmente scorrevano a Sud verso 11 Golfo del Messico, ma che per qualche ragione cambiarono rotta, si inserirono nel fiume San Lorenzo e finirono nell'Atlantico che si «dolcificò» al punto che quasi morì. Il che ci dice che un decremento della salinità ha un effetto maggiore che un aumento della temperatura (i due fenomeni abbassano la densità dell'acqua). Quattro anni fa, due scienziati americani di Princeton, Manabe e Stouffer, dimostrarono una cosa assai sorprendente: qualora si caricasse l'atmosfera con due-tre volte la INCREMENTO ANNUALE DI C02 DELLO 0,5% INCREMENTO ANNUALE DI CO, DELL' 1% INCREMENTO ANNUALE DI C02 DEL 2% ANN N CO di oggi, il nastro si spegnerebbe inesorabilmente. Lo studio appena pubblicato fa un passo in più e ci dice che è importante non solo l'ammontare totale della CO, equivalente (cioè rappresentativa di tutti i gas ad effetto serra), ma anche il tasso con cui è emessa, una conclusione di grande valore pratico. Nella figura riproduciamo i risultati più salienti: nella verticale c'è la portata del nastro corrispondente oggi a circa 25 Sv (Sv è una unità in onore dell'oceanografo norvegese Sverdup e corrisponde ad un milione di metri cubi al secondo; 25 Sv sono equivalenti alla portata di 100 Rio delle Amazzoni!). Notiamo questi fatti salienti: Curva 1. Se l'incremento annuale è dello 0,5%, il nastro non collassa, anche se in una prima fase si indebolisce riducendo la sua portata quasi fino alla metà; poi si riprende, per ritornare quasi al valore iniziale. Curva 2. Con un aumento annuale dell' 1 per cento, avviene il collasso quando si sia raggiunta una concentrazione totale dello 0,075%, cioè circa il doppio di oggi. Curva 3. Lo stesso avviene se l'aumento annuale è del 2%, ma in questo caso il collasso avviene quando la concentrazione è minore, dello 0,065%. Quantunque tutto ciò non sia verità evangelica, tali risultati stanno convergendo: scienziati in Paesi diversi, usando modelli diversi, hanno ottenuto essenzialmente lo stesso comportamento dell'oceano sotto uno stress causato dall'uomo. Il pericolo che corre l'Europa qualora si affievolisse il nastro atlantico è semplicemente troppo grande, non possiamo trasformare l'Atlantico nel Pacifico. E' un rischio che speriamo sia ben presente a coloro che dovranno regolare le future azioni dell'umanità a Kyoto, in dicembre. E' l'ora dei parchi marini SI apre domani a Roma la prima conferenza nazionale sulle aree nazionali protette, un'importante manifestazione sui parchi e sulle riserve italiane organizzata dal ministero dell'Ambiente. Non potrebbe esserci occasione più appropriata, per l'Italia, per compiere un risolutivo giro di boa in tema di aree protette marine, e passare finalmente dalle parole ai fatti. Ce ne sarebbe un gran bisogno, visto che nel nostro Paese, di riserve o parchi marini, ne esistono di fatto soltanto due - Ustica e Miramare - certo pregevoli se presi singolarmente, eppure microscopici e di portata irrisoria se messi a fronte dell'intero sviluppo costiero nazionale e della sua varietà naturalistica. Parrebbe, questo, il momento più propizio per dare uno scossone al letargo che in passato sembra aver intorpidito le istituzioni in latto di parchi marini. E' infatti merito di Edo Ronchi, ministro dell'Ambiente, l'aver sgombrato il terreno dal ginepraio delle competenze ministeriali in frequente conflitto, affidando le aree marine protette interamente all'Ispettorato Centrale per la Difesa del Mare. Pur indispensabile, tuttavia, la volontà politica non basta per dotare l'Italia di parchi e riserve marine che ci mettano al passo con gli altri Paesi europei. Occorrono fondi adeguati, disponibilità da parte delle popolazioni locali e competenze tecnico-scientifiche. Due sono i principali motivi peroni la collettività deve investire nelle aree protette: il l'atto che i costi derivanti dalla perdita di ricchezze naturali per incuria e degrado sono immensamente più elevati di quelli necessari a mantenerla, e la potenziale capacità delle aree protetti^ di autofinanziarsi una volta affermate in un fluido meccanismo gestionale e nella conoscenza del grande pubblico. L'amministratore che lascia incustoditi gli Uffizi per risparmiare sugli stipendi dei guardiani dovrà vedersela con la legge olire che con il pubblico ludibrio, e lo stesso dovrebbe avvenire per chi trascura di garantire adeguata protezione ai beni naturali. Altrettanto importante è l'atteggiamento di coloro che vivono e traggono sostentamento all'interno o comunque nell'ambito dell'area protetta: atteggiamento spesso purtroppo per niente benevolo, e non senza giustificazione. In troppe occasioni in passato non si è data sufficiente importanza al fattore umano. Le persone e le loro esigenze devono divenire la forza trainante della protezione dell'ambiente, dopo tutto saranno proprio loro le prime a beneficiare di tale protezione. Dunque il successo di un'area marina protetta è strettamente legato alla precisa individuazione delle categorie dei suoi utenti, e al loro sapiente coinvolgimento tanto nella pianificazione quanto nella gestione. Ultimo, ma non meno importante, è il problema delle competenze scientifiche, che in materia di creazione di aree marine protette in Italia ancora non esistono in misura sufficiente. Ne potrebbe essere altrimenti, vista la carenza eli palestre per esercitarsi. 'tuttavia questa mancanza di tradizione non è un problema se sapremo affrontarlo con umiltà, attingendo all'ormai rodata esperienza disponibile nella comunità scientifica internazionale. Per creare un'area marina protetta non è possibile infatti applicare pedissequamente i criteri utilizzati per un parco terrestri!: occorrono nuovi paradigmi, imposti dalla natura nebulosa dei confini nel fluido ambiente del mare. Un parco marino non si può recintare, non sono gli oggetti o le strutture in esso contenute che occorre proteggere, e allo stesso modo non esistono barriere in grado di escludere i fattori di degrado quali l'inquinamento dalla terraferma e dall'atmosfera, i cambiamenti idrologici, o gli squilibri ecologici di aree contigue. Al contrario, in un parco marino occorre tutelare i processi criticamente importanti al funzionamento dell'ecosistema: ad esempio i cicli dei nutrienti e dell'energia, la presenza in buona salute di habitat riproduttivi, la percorribilità di rotte di migrazione o di dispersione degli organismi. Vittorio M. Canuto Nasa, New York G. Notarbartolo di Sciara Presidente ICRAM

Persone citate: Canuto, Clemenceau, Edo Ronchi, Manabe, Notarbartolo, Schmitter, Stoker, Stouffer