LA CAMPAGNA E' LA VERÀ RICCHEZZA
LA CAMPAGNA E' LAVERÀ RICCHEZZA LA CAMPAGNA E' LAVERÀ RICCHEZZA non ci fece gridare al miracolo Quello stile secco secco, a frasette galoppanti per la pagina, quelle avventure a zig zag, richiamavano, sì, Fabrizio Del Dongo ma per farlo più che altro rimpiangere. Restammo lì, non del tutto convinti dall'impegnato e un po' enfatico pastiche. Più interessante sembrava l'autore, un uomo solitario, scontroso, che viveva lontano dal bel mondo delle lettere parigine, a Manosque, in Provenza. Come Celine, era stato nella «lista nera» della Resistenza francese per sospette (o dedotte) simpatie verso il governo filotedesco di Vichy e fino al 1947 non potè pubblicare ciò che andava scrivendo. Una condanna che ne faceva un emarginato, un reietto. Ma proprio di quegli anni umilianti e oscuri sono i testi di cui ora disponiamo in traduzione italiana: La fine degli eroi (Sellerio), Il disertore (Guanda) e Un re senza distrazioni appena pubblicato ancora da Guanda. A chi non ha mai letto Giono consigliamo di cominciare da questi tre libri, è il momento giusto. Nell'arco di cinquant'anni la nostra sensibilità verso il paesaggio in letteratura è completamente cambiata. Le «descrizioni» (di una tempesta, di una ferace distesa di campi) che ci toccava tradurre dagli autori classici al ginnasio, erano, sì, a posteriori, ammirevoli, ma compromesse irrimediabilmente dallo straziante contesto scolastico. Anche in presenza del lago di Como e di quel suo ramo ci si toglieva rispettosamente il cappello, ma non di più. E nei grandi romanzieri ottocenteschi i lunghi passi dedicati alla natura e ai suoi splendori non avevamo il coraggio di saltarli ma certo ci si augurava che l'autore lasciasse perdere al più presto brughiere, paludi, siepi, ecc., per tornare sui protagonisti e sulle loro drammatiche vicende. Quando la narrativa divenne quasi esclusivamente urbana il sollievo fu unanime. Restavano in mente un certo arido canalone in Balzac, una landa ventosa in Thomas Hardy, alcune steppe russe sotto la neve, colline leopardiane, colline montaliane, senza dubbio; ma il paesaggio era ormai in secondo piano, prevaleva il rombo della città, fanali, vetrine, marciapiedi, traffico, una folla di gente intabarrata sotto la pioggia. Il progresso, insomma, il XX secolo. Qualche studioso esaminerà un giorno da vicino questa evoluzione, se già non l'ha fatto. A noi pare, così a occhio, che la supremazia metropolitana sia finita con le vaste illusioni insieme alle quali nacque. Ci sarà ancora qualcuno che si esalta per la New York o la Berlino di oggi ma sono per così dire fatti suoi. E' la retorica (e la novità) della megalopoli che non regge più, di ventre osceno e formicolante sempre si tratta ma l'alone baudelairiano è spento, il fascino letterario se n'è andato per sempre. Così, un po' di sbieco, si può comprendere la nuova attenzione per il Giono «minore», interamente, meravigliosamente occupato dal paesaggio. Non c'è ambientalista o «verde» che possa far meglio, né ricordiamo (a parte Mario Rigoni Stern) una così appassionata presenza di monti, sentieri, boschi, ruscelli, radure su una pagina scritta. Di romanzesco c'è il capitano dei gendarmi Langlois, una sorta di Maigret laconico e allusivo, che indaga tra i misteri della Provenza 1840, sempre a cavallo. Un uomo dal passato tenebroso (com'è anche il pitto¬ re di ex voto del Disertore), dotato di un fiuto personalissimo, quasi da guida opache, per tracce, indizi, nessi invisibili, sull'orlo del soprannaturale. Quando si muove tutto si muove con lui, le selle, le staffe, gli zoccoli sul fango, il filo di fumo che si leva dalla capanna, i passi di montagna, i lupi, i corvi, il sole, le infinite valli e vallette del suo territorio. Una prodigiosa intensità descrittiva su cui il lettore non solo non è tentato di sorvolare ma che anzi aspetta con delizia di pagina in pagina, giochi di luce, contrasti di colori, nebbie, nubi, schianti di rami, colpi d'ascia in un remoto casolare, profumi di zuppe, di bacche selvatiche. Citeremo la caccia in pieno inverno a un serial-killer, uomo contro uomo tra dirupi, gole, gelide foreste, come un esempio insuperabile da qualsiasi Fbi. Che cosa ci sia sotto questo panteismo non è in fondo importantissimo (anche se i corredi informativi dei tre libri sono francamente miseri), l'epoca in cui l'estetica e l'etica di Giono si formarono è pur sempre quella di Gide e D'Annunzio, con le loro misticheggianti carnalità. Ma quel che emerge dopo mezzo secolo è un contagioso sentimento di stupore, d'incanto non sentimentale, non kodak, per la varietà e la ricchezza della natura, quale certamente doveva essere intorno al 1840 e di cui non possiamo neppure tentare la riscoperta, tutte le radure di tutte le montagne essendo ormai trasformate in parcheggi o aree di pic-nic. E' più sicuro leggere Giono. LETTERA Al CONTADINI SULLA POVERTÀ' E LA PACE Jean Giono Ponte alle Grazie pp. 124, L 18.000
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