CHE TALENTO QUEL PICARO di Bruno Quaranta

INTERNET INTERNET di Federico Peiretti PADRE Felix Sanchez Vallejo, esperto latinista dell'Università Gregoriana, ha creato un sito in difesa del latino che ha battezzato BreWter sed Quotidie. Si tratta di un'antologia di testi classici e moderni proposti come ripasso e studio del latino. Sono testi «all'antica», senza collegamenti ipertestuali, preziosi non solo per gli studenti, ma per chiunque voglia cimentarsi con la nostra lingua madre che, lamenta padre Vallejo, gesuita polemico e battagliero, «va soccombendo un po' ogni giorno, travolta dall'impietosa velocità del nostro vivere». «Per me - dice ancora - risulta dolorosa la prospettiva che i nostri agenti culturali arrivino alla fine del secolo digiuni di latino, cioè culturalmente invertebrati». Avvalendosi della sua grande esperienza, ha scelto 365 pagine, una per ogni giorno dell'anno, di autori classici o di autori più recenti come Padre Ricci per le Storie Cinesi e documenti originali come l'invito a nozze di un pastore protestante o il diploma della Cancelleria Imperiale di Vienna sullo stemma araldico del Conte Dracula. Sono brani in latino, volutamente senza traduzione: «Meglio lo sforzo personale - dice - che non una sfilza di "aiuti" o una traduzione». Padre Vallejo, alcuni anni fa, era stato promotore di un'iniziativa, di scarso successo, per l'affermazione del latino come lingua franca della nuova Europa. Ora spèra che il suo «situs» possa raccogliere nuovi «apostoli del Latino» per combattere una battaglia che non considera ancora perduta: «Sia l'inglese la lingua di scambio, indispensabile per il presente in quei campi ormai già conquistati, il latino tuttavia ben merita di essere conservato come strumento di riflessione diretto a decodificare il nostro passato». Nel frattempo confida di avere già pronta una nuova antologia latina, per un secondo anno di letture quotidiane (brev/ter sed quotidie). http://www.unigre.urbe.it/ va/ie/o/breviter.htm Tra colpi di fortuna e crack, il «compendio di una vita non ancora strozzala»: di sfida in sfida alla sorte, per sottrarsi ai gioghi deh s h senso comune CHE TALENTO QUEL PICARO De Marchi: avventure a Milano TORINO I salveranno le vecchie zie, assicurava Leo Longanesi. Ma pure alle nonne va rivolto un riconoscente pensiero, una volta giunti alla fine di II talento, storia di quel grande dilettante della vita che è Carlo Morozzi. Era da parecchio che la nostra narrativa non porgeva un romanzo così autentico, velocissimo come una fucilata, di un'eleganza mai accademica, intarsiato di mai banali colpi di dadi - l'azzardo di stare al mondo -, un'eco nitida, nitidissima, ancorché involontaria, dei Racconti romani di Alberto Moravia. La nonna, dunque. Se Cesare De Marchi, 47 anni, origini genovesi, ha scelto di cimentarsi con la letteratura, e non da ora, il motivo va scovato nell'infanzia e nell'adolescenza trascorse accanto alla sensibilissima figura femminile. «Mi leggeva Dante, il quinto canto dell'Inferno in particolare, l'angolo di Paolo e Francesca. Amava la musica. Frequentava i grandi autori francesi e ne riassumeva le opere con rara malia. E io assimilavo, meditavo». Studi a Milano, laurea in Filosofia («Che insana la passione per l'idealismo, per Hegel»), una moglie tedesca, un figlio, Cesare De Marchi vive in campagna, non lontano da Stoccarda. Insegna i rudimenti della lingua italiana agli allemandi che vagheggiano Rimini e il Vesuvio, traduce (lemmi per enciclopedie, da Einaudi a De Agostini, Fontane e Grillparzer, Diderot e Gii, Ruth - Storia della mistica occidentale - e Schnitzler - La predilezione e altri racconti); cura libri; ha fondato nell'87 la rivista «Nuova Prosa»; è fautore di «una critica letteraria diacronica: mi piace seguire un argomento così come lo hanno trattalo diversi autori e diverse scuole». Soprattutto è, sa di essere, vuole essere, scrittore «a tempo pieno». Scoperto dalla signora Sellerio (i7 bacio della maestra e La malattia del commissario), in Feltrinelli è giunto grazie anche alla mole di 7/ talento, un fiotto di pagine, quasi trecento, che nel catalogo palermitano avrebbero faticato a depositarsi, a respirare. Avverte: «Risalgono all'89 i primi appunti». Per caso a Torino, ma forse nulla è casuale - sotto la Mole, in avvio di Novecento, non esitò a mettere radici Curt Seidel, un tedesco che non poneva il sole e il mare in capo alle sua aspirazioni - Cesare De Marchi è un volto tornito da una lunga disciplina e autodisciplina, un signore forse d'indole asburgica, di quelli che s'incontravano nell'Istituto di Assicurazioni dove «esercitava» Kafka. Dietro la norma, la normalità, ecco incalzare II talento, alias Carlo Morozzi, tra coloro che dantescamente, al talento, «la ragion sommettono». E' un picara nato «in una famiglia decorosamente malestante» e milanese (zona di Porta Romana), destinato a venire «omesso» (a cominciare dalla madre), votato inesorabilmente all'avventura nell'Italia di questo secondo dopoguerra: «Del passato, di tutta la mia sventatezza, una sola cosa forse non rimpiango - a parte questa vita indocile, che spero di non perdere -, ed è di aver sempre creduto nell'avventura che verrà, non importa come o quando, a rompere i sigilli arbitrari della felicità». «La mia esistenza, sospinta dal mio talento...». Giorno dopo giorno, tra colpi di fortuna (il Casinò di Campione sbancato: «anche il gioco della roulette era in fondo una questione di talento» - ma Tommaso Landolfi assentirebbe?) e crack (l'allevamento di lumache lungo la Paullese), tra mestieri ora bigi ora furfanteschi, tra amori devoti e relazioni capestro, tra lunghi digiuni e fulminee passerelle in ristoranti «alla carta», tra sgangherati veicoli e roboanti spider. Di trucco in trucco, di invenzione in invenzione, di sfida in sfida alla sorte, al senso comune, ai gioghi di moda. «Volevo - spiega l'autore - fabbricare un personaggio che, non possedendo un sicuro orientamento morale e intellettuale, fosse di continuo in balia degli eventi, avvinghiato unicamente al talento». (Affiora una confidenza di Huysmans all'abate Mugnier: «Ripeteva che l'arte è l'inizio del peccato, che hanno talento solamente quelli che hanno molto peccato»). Il «compendio di una vita non ancora strozzata» è offerto in una lingua classica, raffinatissima, che non corre il rischio di suonare gratuita, che evita la trappola del mero esercizio di bravura. «Quando ho deciso di fare lo scrittore mi sono calato radicalmente nella letteratura italiana, dagli albori prediligendo il Novellino, Boccaccio, Sacchetti - a oggi, a Gadda, al Bianciardi di La vita agra, a Brancata ingiustamente messo in disparte. L'ho studiata con meticolosità teutonica. Incastonare il parlato in una lingua letteraria è l'obiettivo che mi sono dato». Nel Talento di sicuro raggiunto. Sì, di biblioteche Cesare De Marchi ne ha visitate e sorbite da quando s'imbattè nelle favole di Andersen, come l'alter ego Carlo Marozzi: «Mi accorsi che per la prima volta mi turbava una lettura». «Da allora un eguale brivido me lo ha trasmesso - ricordo che i ginocchi tremavano, continuano a tremare appena lo riaccosto Thomas Mann, l'educatio mortis che è». Ma, con il Dante dell'Inferno, canto quinto, è lo Stuart Mill dell'Autobiografia a conquistare lo spazio riservato alle epigrafi: «La convinzione che la felicità è il principio di tutte le regole di condotta e il fine della vita». La felicità immancabile e incorruttibile che nel talento risiede, che dal talento procede. Bruno Quaranta

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