Cronache della grande nube d'Asia

La catastrofe ecologica indonesiana minaccia l'intero Sud-Est, la caligine arriva a Phuket La catastrofe ecologica indonesiana minaccia l'intero Sud-Est, la caligine arriva a Phuket Cronache della grande nube d'Asia Sei Paesi assediati dal fumo degli incendi KUALA LUMPUR IETRO la cupola d'oro della Grande Moschea i grattacieli, dove pulsano le vene di una tigre economica dell'Asia, sono sfumati, incerti, brumosi. La nube è arrivata silenziosa, subdola, ha avvolto la città, sovrapposto il suo buio e il suo veleno a quello «normale» del traffico e dello smog. Sulle grandi strade della città nuova le auto emergono come fantasmi luminosi; le viuzze del quartiere cinese sono state derubate dei colori e una folla striminzita e grigia si aggira silenziosa. La gente in attesa di entrare nella moschea si allunga nel grande spiazzo, resa uniforme dalle mascherine bianche che coprono la bocche e fanno assomigliare tutti a una piccola armata di medici. A guardare bene non ci sono vecchi e bambini: il governo della Malaysia da giorni, da quando è arrivata la grande nube di fumo e fuliggine causata dagli incendi che straziano le foreste del Borneo, lancia avvisi perché restino prudentemente in casa. «Allah ci darà la pioggia, abbiate fiducia», ripetono i fedeli; perché solo le grandi piogge possono fermare la corsa del fuoco. L'incedio si è già nutrito con seicentomila ettari e solo il cielo può gareggiare con la sua corsa vorace. Bisognerebbe spiegare a questi devoti musulmani che Allah ha un nemico, si chiama «El Nino», l'inversione dei venti che spirano verso Occidente, portando con sé le masse di aria calda del Pacifico meridionale. Così l'Asia è bruciata dalla siccità mentre l'America trema sotto gli uragani. Vikneswari ha nove anni. Non è andata alla moschea e neppure a scuola perché il governo ha deciso la loro chiusura fino a quando la situazione non migliorerà. E' andata in ospedale e docile, sotto gli occhi della madre, inspira da un nebulizzatore. Negli elenchi di cliniche e ospedali si allungano già ventimila nomi come il suo, tutti con gli stessi sintomi: difficoltà a respirare, polmoni e1 gola in fiamme, problemi di cuore. Nelle strade i pompieri con enormi idranti lanciano grandi girandole d'acqua per cercare di purificare un poco l'aria e far scendere gli indici d'inquinamento. Niente da fare. Le frecce dei rilevatori anche ieri sembravano inchiodate a quota centonovantaquattro. La soglia di rischio è cento. Al porto di Kelang un migliaio di loro colleghi stanno ben allineati con i camion, le attrezzature, i coloratissimi caschi gialli. Sembrano felici, agitano bandierine, mentre un paio di ministri li passano in parata. Sono felici perché quando sbarcheranno dalle due navi che li porteranno verso l'isola del Borneo, avranno finalmente di fronte il Nemico. Dovranno combattere con le fiamme, cercare di costruire trincee di terra, fare insomma le cose per cui sono stati addestrati; non avranno davanti quell'impalpabile nebbia puzzolente che non ti dà possibilità di reagire. Il Nemico che sta facendo tossire, piangere, ansimare un grande pezzo dell'Asia, che mette a rischio qualche milione di persone in sei Paesi è lì. L'incendio dell'ultimo polmone verde della Terra è un'apocalisse scenografica, un disastro che consuma con le foreste, i villaggi, le coltivazioni, anche i confini nazionali, brucia gelosie e rivalità politiche, costringe sei governi su una zattera della medusa sempre più a rischio. Le speranze che quei 1200 uomini con le altre migliaia che stanno arrivando da tutta l'Asia e dagli Stati Uniti possano vincere sono flebili. Perfino un despota forgiato nel ferro come l'indonesiano Suharto ha lasciato cadere il suo ottimismo istituzionale e ha chiesto scusa ai vicini: solo la pioggia può salvarci, è una catastrofe. PHUKET. Doveva essere una giornata normale nella capitale un po' spiegazzata del turismo thailandese: spiagge brulicanti come formicai, automobili, le luci dei mille locali che si accendono a poco a poco nel crepuscolo. Invece la Nube è arrivata anche qui, ancora un po' incerta ma già visibilmente inesorabile. Quattro giorni fa sembrava ancora abbastanza lontana per preoccuparsi. Tra la Thailandia e il Borneo dove è nata e si alimenta dei suoi veleni (monossido di carbonio, biossido di zolfo, ozono e piombo) ci sono migliaia di chilometri. Avevano pensato così anche a Singapore, in fondo alla penisola malese; anche lì adesso contano i ricoveri in ospedale, le scuole chiuse, gli aeroporti in difficoltà. La nube ostinata, irrestibile, ha scavalcato le montagne, oscurato i mari, e adesso sale trionfale ad occupare il resto dell'Asia del Sud. A Pukhet già c'è l'invito a rinun¬ ciare a usare l'auto e la raccomandazione, comunque, di accendere i fari anche di giorno. Ieri i turisti non si sono arresi, sono andati in spiaggia, in fondo sono solo le prime avanguardie della nube. Ma sul mare, al largo, le unità della guardia costiera brancolano alla ricerca di una nuova categoria di naufraghi: venti imbarcazioni di pescatori inghiottiti dalla nebbia velenosa. KIKHING. Nella sala dell'aeroporto la folla si allunga, grida, preme, assalta impietosa i banchi della compagnia di bandiera, la «Malaysia Airlines». Gli impiegati non hanno nemmeno il tempo di maledire la decisione dei vertici della compagnia di riaprire lo scalo e far ripartire i voli dopo che per giorni l'oscurità e il fumo avevano prudenzialmente tenuto negli hangar gli aerei. Ci sono da registrare le prenotazioni di migliaia di turisti che, dopo una settimana di vacanza forzata, passata a tossire e a rinnegare questo paradiso salgariano, vogliono un posto subito, una prenotazione che metta al riparo da altre brutte sorprese. Kuching è appesa al Borneo che si sta trasformando in cenere. Perfino l'ufficio turistico, che fino all'ultimo ha continuato ad aggrapparsi alla speranza che tutto tornasse normale, alla fine si è arreso: «Forse è cattiva pubblicità, ma è peggio far venire i turisti e poi non avere la possibilità di riportarli indietro se aumenta il pericolo». BA1IKPAPAN. Un gruppo di uomini seminudi avanza piano nella foresta. Guardano bene davanti a sé come se avessero timore di inciampare in un pericolo. In mano hanno piccole taniche di plastica, secchielli colorati come quelli che servono per il giardinaggio. Tra Bali- kpapan, nella parte meridionale del Borneo, e Kuala Lumpur, ci sono duemila chilometri. Qui fino a ieri c'era mia foresta possente, una sinfonia verde e inestricabile come un enigma, giganti vegetali vecchi di secoli e colline che sudavano nebbia e umidità. Adesso non c'è più niente: moncherini nerastri alti una spanna, neri cadaveri vegetali. Le tracce del delitto sono nascoste nel tappeto di cenere ancora rovente che nasconde la terra. Questi contadini fino a ieri si fidavano della regola millenaria della foresta. Ogni anno bruciavano un piccolo spazio, rubavano alle montagne un paio di ettari. Seminavano, raccoglievano quanto bastava per la loro famiglia, poi, dopo due o tre anni, si spostavano di qualche chilometro a cercare un terreno non ancora esausto, da fecondare con il fuoco. Era cosi da secoli, come fanno tutti i contadini del mondo per sopravvivere senza trattori, senza concimi, senza denaro. A spegnere il rogo, a impedire che la ferita della foresta si allargasse provvedevano le piogge, che arrivavano puntuali ogni fine di settembre. La tragedia, forse, è cominciata così: da mille piccoli fuochi accesi, moltiplicati dalla voce corsa da un capo all'altro dell'isola immensa: i prezzi dell'olio di palma, delle colture pregiate sono aumentati, bruciate perché si possono fare buoni affari. Poi «El Nino» ha cancellato le nuvole e il fuoco ha cominciato a correre. Ora con i loro piccoli, patetici secchi d'acqua cercano di arginare il rogo. Sanno che, alla fine, daranno la colpa a loro, alla loro modesta fame di guadagno. Le grandi compagnie per la deforestazione, quelle che hanno gli uffici nei grattacieli di vetrocemento a Giakarta, hanno avvocati, ministri, deputati da far scendere in campo. Il governo indonesiano ha strepitato, fatto la voce grossa, assicurato che toglierà loro le concessioni e i finanziamenti statali. Ma quando il grande fuoco sarà spento (se mai succederà) tutti sanno che conteranno di nuovo i miliardi, le mazzette, il busines. Come sempre. Domenico Quirico Si arrende il presidente Suharto «Solo la pioggia può salvarci» Decine di migliaia in ospedale Assalto agli aerei dai Borneo i /THAILANDIA'-. \, 0 Bangkok/ ' li nn FILIPPINE / a Manila \q L LA NUBE DI FUMO GIAVA ^ ^3 y (visibilità 500 metri) INDONESIA' Gli incendi che da settimane devastano le foreste indonesiane hanno provocato una cappa di fumo e fuliggine che copre i cieli di sei nazioni del Sud-Est asiatico. Milioni di cittadini (nella foto) ansimano tossiscono e pregano perché piova

Persone citate: Domenico Quirico, Suharto