«Quella certa età» commozione per i dimenticati del video di Alessandra Comazzi
F TIVU'&"SWU' «Quella certa età», commozione per i di , lenticati del video ANCHE in televisione: anche nel grande contenitore è difficile che si parli degli anziani. Si parla dei giovani quasi fossero un pianeta insondabile; pur trascurandoli, ci si preoccupa di loro, ci si pone il problema della mancanza di spazi televisivi che li riguardino, soprattutto li attirino. Si parla molto delle carceri, ma si parla poco dei malati e pochissimo degli anziani. Soprattutto degli anziani raccontati nella loro normalità: non i casi limite, gli abbandoni e le trascuratezze o ancora le straordinarie attività. Gli anziani qualunque, quelli che vanno in pensione e non sanno più cosa fare, che sentono di essere di peso ai figli, che hanno il problema non soltanto della sessualità, ma anche della considerazione umana, in una società squilibrata che accantona sempre prima le persone dal mondo del lavoro e nello stesso tempo è sempre più vecchia. Con altrettanto silenzio, come se ci fosse una sordina iofilata sulla telecamera, è andato in onda l'altra sera un film-documento di Damele Segre, titolo I «Quella certa età». Segre aveva I già trattato altri temi sociali, adesso ha avuto il coraggio di occuparsi degli anziani. Coraggio, perché è inutile fingere: il tema è scomodo e difficile, può suscitare addirittura fastidio, nel pubblico frettoloso della tv. E coraggio a metà ha avuto la Raitre di Minoli a mandarlo in onda: lo ha fatto, ma dimostrando nello stesso tempo di non crederci troppo, secondo un modo di operare frequente in tv. Si trasmette diligentemente anche quello che si sa fin da subito di scarso successo di pubblico: però poi non lo si dice, come se ci fosse un fondo di vergogna a proporre una televisione non al passo con i tempi carichi di «Furore» politico. «Quella certa età» riprendeva, secondo la tecnica consueta di Segre, uomini e donne che parlavano, raccontavano, rispondevano a domande mai esibite. Facce bellissime, stanche, fresche, allegre, tristi, che dicevano il loro bisogno d'amore, la passione per il ballo, l'affetto per il compagno, la voglia di rifarsi una vita, la disillusione e la speranza. Sopra tutto, la sensazione della vita che era fuggita via senza farsene accorgere, lasciandoti lì, con tanti anni in più, un corpo da vecchio e, spesso, una psicologia da ragazzo. Il film di Segre, senza una parola di commento, individuava tutti i tempi più importanti di «quella certa età»; lo faceva persino con un pizzico di retorica (la coppia che canta «Mi pare un sogno un'illusion averti a me vicin»), ma infine risultava toccante, cosa rara per la nostra disincantata, scettica, cinica tv. Su Rete 4 ha debuttato una miniserie, fatta apposta per il video, liberamente tratta dal romanzo di Puzo, come il mitico «Padrino» con Marion Brando, titolo «L'ultimo padrino». Nel cast ci sono vari attori conosciuti, Danny Ajello, Joe Mantegna, Penelope Anne Miller, tra matrimoni, funerali e battesimi, la storia riesce persino a fare dell'intrattenimento, nonostante la fissità delle scene. Due milioni e mezzo di telespettatori e una domanda: perché? Perché spendere denaro per questa rivisitazione, dignitosa ma del tutto inutile? Avranno fatto i loro conti, gli americani, come Ted Turner, e non gli sarà mancato il tornaconto. Alessandra Comazzi <<Ll
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