Un labirinto di immagini di Marco Vallora

Un labirinto di immagini Un labirinto di immagini Quaglie lessate con mutandine e calze a rete perfidi cartoni satina, vasi che piangono vino JTORINO ONFESSIAMOLO: all'inizio la prima impressione è di sgomento, di inadeguatezza, ancor più che di saturazione: dov'è che conterremo tutta quest'arte (dentro le nostre piccole case? dentro i nostri occhi che lagrimano di figure e televisione? dentro i nostri musei di arte contemporanea che non esistono?). Ed è forse proprio la comoda e cartesiana rettilineità tutta sabauda di questa ordinatissima quarta edizione di «Artissima», che acuisce il senso di sconcerto, di labirintico accerchiamento. A fine millennio, davvero, l'esubero di immagini e di icone, anche basse (come ci ha insegnato Warhol), anche ironiche (a cui ci ha subdolamente assuefatti questa stagione iper-pop) non smette di inseguirci. Moriremo di immagini, come qualche semiologo aveva profetizzato? E' curioso: questa fine secolo che sempre più smaccatamente sembra disamare l'arte e castrarsene ufficialmente, sembra poi soffocare d'esubero d'arte, un'arte che nemmeno più il mercato sa come arginare. E poi quest'emblematica tenzone (come già sul finire dell'altro secolo) tra arte e fotografia: non c'è galleria che non abbia nel suo menù un Mapplethorpe o almeno una Goldin, quasi fosse pregiata carne di struzzo. Siamo diventati tutti artisti, come voleva il famoso precetto di Rimbaud? Quasi simbolicamente, la prima icona che si incontra entrando nel Lingotto, alla Galleria Sant'Agostino, sta in una serie di perfidi cartoni satirici, forse per l'Avariti!, del grande visionario Bonzagni. Una processione assai misogina di obesissime silfidi e di scatenatissime santippe, che assaltano il mondo al grido di «Voghamo il Voto». «Hanno gusti neroniani», sibilano alcune velenose didascalie, «si occupano di pittura e naturalmente tengono anche conferenze». E se rivoltassimo maliziosamente que¬ st'ironia nei confronti dei dilaganti artisti? Che scalano il mondo, che smuovono sindaci e assessori, che vogliono tutto e troppo, come santippe del consumismo estetico? Eppure, se si entra con un poco di curiosità e di fiuto nei vari stand, ci si accorge progressivamente che questo senso non solo di ricca morte dell'arte ma anche di ospedalizzazione estetica, è penetrato come un gas asfissiante fin dentro le fibre degli artisti migliori, che ne hanno tratto un meta-contenuto angosciato oppure sarcastico. Come forse vuole suggerire anche l'Anna Lequio dei monitori acquerelli dal Museo Rodili: quella luce caustica (proprio nel senso di soda) che corrode come una lebbra rognosa l'educata atmosfera tornita della Sala d'Arte. Poco a poco, e tragicamente, assistiamo a una mutazione genetica dell'umanità, come ci avverte quel cerbero imbalsamato di Grùnfeld, temibile cane lassie con testa vera d'asinelio e coda di cavallo. Doppi occhi, tre nasi hanno certi ritratti citazionisti per nulla cubisti, mentre le siamesi dei gemelli Chapmann hanno per unico orecchio un sesso e il fotografo Corbijn riesce a cangiare pure i connotati di Pavarotti, incattivendolo e sfasando le fisionomie di Depardieu o di Lynch quasi fossero delle lune ubriache. Le quaglie lessate di Enrica Borghi portano vezzose calze a rete e mutandme di pizzo, mentre le ostriche di Bianca Sforni simulano umide anatomie: e persino le ombre cinesi sono triccottate come calzerotti. Giacche in fettine di carne o bocche fotografate come laghetti dove nuotano pesciolini, mentre il vaso maiolicato di Martin Hiddink piange vino come una qualsiasi madonna di Civitavecchia. Dio non voglia che di questa stravagante manipolazione genetica si debba occupare un giorno Monsignor Tonini. Marco Vallora

Luoghi citati: Civitavecchia