Il crimine? E solo un errore

DISCUSSIONE. Una studiosa, esperta di teoria dei giochi, capovolge le spiegazioni politico-sociali Il crimine? E' solo un errore DISCUSSIONE. Una studiosa, esperta di teoria dei giochi, capovolge le spiegazioni politico-sociali Con la razionalità scompare EERCHE' è scoppiata Tangentopoli? Una risposta naturale è: per oltre quarantanni è esistito in Italia un — ristretto gruppo dirigente, sostenuto dalla delicata posizione strategica del Paese. Così i vari Ghino di Tacco hanno potuto imporre esose gabelle: molti storcevano il naso, ma tutti finivano per pagare. Poi è caduto il muro di Berlino, e gli equilibri che contano si sono spostati altrove; come risultato, i padroni del giorno prima si sono scoperti immensamente vulnerabili. Questa è una risposta di carattere politico-sociale, formulata in termini di una logica di massa e di potere che sfugge per definizione a qualunque controllo ognuno di noi tenti di esercitare in prima persona. Ma dal centro individualistico dell'impero una studiosa italiana propone una lettura diversa: Tangentopoli, afferma, è un esempio di quanto dilettose siano le nostre informazioni sul comportamento altrui e di qjanto rapidamente ci adattiamo appena ne sono disponibili di migliori. Cristina Bicchieri si è laureata in filosofia con Geymonat nel 1976. Ha poi conseguito un dottorato a Cambridge, specializzandosi in filosofia ed economia, e ha insegnato alla Columbia University, all'Università di Chicago e a quella di Notre Dame. Attualmente è professore alla Carnegie Mellon University di Pittsburgh; tra le sue specialità, teoria dei giochi, teoria della scelta razionale e psicologia sociale. Ha pubblicato per Cambridge University Press, per Feltrinelli e sta scrivendo un libro per Cambridge sulle norme. Che, come vedremo, hanno per lei un ruolo fondamentale nella spiegazione del comportamento umano. Per capire le sue tesi partiamo dagli esperimenti sul cosiddetto «dilemma del prigioniero» condotti a partire dagli Anni 50. A due individui viene proposto di tradirsi l'un l'altro. Si comunica loro che se entrambi tradiranno riceveranno due aimi di galera, se nessuno tradirà (se entrambi «coopereranno») avranno solo un anno, ma se uno tradirà e l'altro no il secondo avrà cinque anni e il primo sarà liberato. Secondo la teoria dei giochi c'è per entrambi una strategia «dominante»: qualunque cosa faccia l'altro, a ciascuno conviene tradire. Così, se l'altro non tradisce si è liberi e se l'altro tradisce si prendono solo due anni; se invece si sceglie di cooperare si prendono un amio se l'altro coopera e cinque anni se tradisce, ossia si finisce per star peggio comunque. Ammesso che entrambi siano tanto furbi (ovvero, secondo la teoria, tanto razionali), entrambi andranno in galera per due anni; se lo fossero stati di meno e avessero entrambi cooperato, entrambi avrebbero avuto solo un anno. Ragionando ragionando, si sono fregati tutti e due. Fin qui la teoria. Quando però si trattò di applicarla, spiega la Bicchieri, si andò incontro a grosse smentite: il li vello di cooperazione riscontrato raggiungeva il settanta per cento, contro un livello previsto zero. Come la mettiamo allora: siamo in grande maggioranza tra quelli che la teoria definisce suckers (stupidi)? Sarebbe stato un buon momento per abbandonare un'analisi individualistica della situazione e chiamare in causa fattori di massa e di potere, ma negli Stati Uniti non ci si poteva aspettare tanto; così la reazione più comune è stata invece di dire che siamo evoluzionisticamente programmati alla cooperazione perché in origine questa era nel nostro interesse - cioè nell'interesse individuale di ciascuno. Quando nel Pleistocene andavamo in giro in piccoli gruppi di cacciatori-raccoglitori, ci conveniva aiutar- ci l'un l'altro perché altrimenti le prede ci sarebbero sfuggite; adesso le cose sono cambiate ma l'istinto cooperativo è rimasto. La Bicchieri evita questi ricorsi un po' fantasiosi alla preistoria. Secondo lei, il nostro comportamento sociale è governato non soltanto dall'interesse personale ma anche da un insieme di norme (di reciprocità, correttezza e via dicendo). Le norme non predominano sull'interesse in modo totale: sono piuttosto criteri automatici che si appli¬ cano quando non c'è niente in contrario. Se non abbiamo motivi per pensare che il vicino sia un furfante adotteremo con lui un atteggiamento cooperativo; solo quando si sia dimostrato malvagio ci adegueremo e gli renderemo pan per focaccia. L'egoismo cieco, indiscriminato e autodistruttivo postulato dalla teoria dei giochi non è dunque «normale»: è frutto invece di un rapporto già compromesso, già infestato dal sospetto reciproco. Neil'applicare questo schema ge¬ nerale a casi specifici, subentra però una complicazione: la nostra percezione della psicologia altrui è spesso errata. Quando un altro si comporta come noi, tendiamo ad attribuire il suo comportamento a motivi del tutto diversi da quelli che sappiamo essere i nostri. Quando l'insegnante chiede agli alunni se hanno capito e nessuno fa domande, molti sanno di non farne perché si vergognano della propria ignoranza, ma pensano che gli altri invece abbiano capito tutto. Quan¬ do un gruppo di adolescenti indulge in eccessi (nel bere, nella guida, nel consumo di stupefacenti), i più lo fanno con una certa resistenza interiore, all'unico scopo di non essere da meno dei compagni; ma ciascuno pensa che gli altri lo facciano invece con autentico piacere. E lo stesso è capitato con Tangentopoli, sostiene la Bicchieri: la maggior parte dei corrotti e dei corruttori odiava questo «sistema», ma pensava che gli altri ci si trovassero invece del tutto a proprio agio e finiva così per applicare norme sociali sbagliate. La soluzione in casi del genere è gridare «Il re è nudo» e questa soluzione ha funzionato: quando i fatti sono (per caso) venuti fuori, non c'è stato più modo di arginare le reazioni del pubblico. E' una posizione di stampo illuministico: violenza, abuso e crimine sono frutto di un errore intellettuale e svaniranno quando l'errore sarà corretto. Ed è una posizione meritoria: una chiara visione degli eventi e delle intenzioni altrui non può che favorire il bene comune. Forse però i suoi meriti appaiono con maggiore evidenza quando la si formula in termini prescrittivi, non descrittivi: come un'etica, non come un'antropologia. Forse dovremmo coglierla come un invito a lavorare insieme per una società in cui capire come stanno le cose sia sufficiente per farle funzionare meglio; nella nostra società attuale abbiamo spesso Vimpressione che siano in molti a disapprovare una certa pratica e che tutti sappiano che molti la disapprovano, ma nessuno possa permettersi il lusso di agire in conseguenza. E, se capitano errori di valutazione come quelli di cui parla la Bicchieri, sembra plausibile giudicarli non come circostanze infauste cui porre al più presto riparo, ma invece come meccanismi psicologici destinati a proteggerci dal riconoscimento della nostra impotenza. Sembra cioè che dire «Gli altri la pensano tutti così» sia un modo per non ammettere che, comunque la pensiamo, non siamo in grado di fare nessuna differenza. Ermanno Bencivenga Da Tangentopoli all'omicidio: comunicando col prossimo si può costruire il bene comune Qui accanto, un'aula di tribunale

Persone citate: Carnegie, Cristina Bicchieri, Ermanno Bencivenga, Feltrinelli, Geymonat, Mellon, Quan

Luoghi citati: Berlino, Cambridge, Italia, Pittsburgh, Stati Uniti