Asi, lo strano sboom delle Tigri dello sviluppo di Sergio Romano

delle Tigri dello sviluppo Paura d'un effetto domino per il crack di Bangkok ma POriente continua a surclassare l'Europa delle Tigri dello sviluppo E FFETTO domino» è l'espressione con cui il generale Eisenhower, allora Presidente degli Stati Uniti, descrisse ciò che sarebbe accaduto se un Paese dell'Asia sudorientale fosse caduto nelle mani dei comunisti. In nome della ((teoria del domino» e per evitare che le pedine rosse si allineassero l'una accanto all'altra sulla scacchiera dell'Asia meridionale, gli americani fecero la guerra del Vietnam e sostennero tutti i regimi, dall'Indonesia alle Filippine, che contrastavano l'avanzata comunista. Quarant'anni dopo l'espressione assume, ironicamente, un significato diverso. Il problema all'ordine del giorno non è più la propagazione del virus comunista attraverso i Paesi che si affacciano sull'Oceano Indiano e sui mari della Cina. Il domino di cui oggi temiamo maggiormente gli effetti è, paradossalmente, un domino «capitalista». L'epicentro della crisi non è più a Saigon, come negli Anni Sessanta, o a Kabul, come negli Anni Ottanta. E' a Bangkok, dove il capitalismo asiatico si è improvvisamente ammalato e minaccia d'infettare, uno dopo l'altro, tutti i Paesi della regione. Proviamo a riassumere brevemente ciò che è accaduto nel corso delle ultime settimane. La crisi scoppia alla fine di giugno quando gli investitori internazionali si accorgono che la moneta thailandese, il baht, è sopravvalutata e cominciano a sbarazzarsene. Il copione assomiglia a quello messicano o, se preferite, a quello italiano e inglese del 1992. Il governo aumenta i tassi di sconto e cerca di resistere, ma ottiene, come spesso accade in queste circostanze, l'effetto opposto. Il 2 luglio la Banca di Thailandia cede le armi e si affida alla fluttuazione del mercato. Nel giro di qualche ora il baht precipita perdendo il 24% del suo valore. Entra in scena il Fondo Monetario Internazionale con una linea di credito pari a 17 miliardi di dollari. Ma l'intervento del Fondo alla fine di luglio non impedisce, nel frattempo, l'effetto domi- no. La valuta della Malaysia, il riggit, perde il 5%, l'Indonesia e le Filippine sono costrette a svalutare. Il ministro delle Finanze thailandese annuncia che un milione di persone perderà il lavoro. L'altro giorno molte di esse erano in piazza a Bangkok con cartelli in cui si leggeva tra l'altro: «La povera gente paga i debiti mentre i capitalisti malvagi vendono il Paese». Un episodio isolato nel quadro di una economia asiatica dinamica e fiorente? Purtroppo l'episodio thailanese è soltanto uno dei molti segnali negativi che vengono in questi ultimi tempi dall'Asia. In Indonesia il male non è soltanto economico e finanziario. E' anche etnico e religioso. Durante l'ultima campagna elettorale, nella scorsa primavera, l'esercito ha represso moti e agitazioni nel Timor orientale, a Aceh, Irian, Jaya e nella stessa Giakarta. Il partito di Suharto ha vinto, come al solito, ma la vittoria è stata duramente contestata dai notabili e dai militanti del partito musulmamo. A Madura, dove le elezioni sono state annullate e si è votato due volte, i dimostranti hanno bruciato i seggi e sfidato in campo aperto il contingente corazzato (2800 soldati) che il governo aveva mandato nell'isola. In India il governo è infinitamente più democratico e rispettoso delle minoranze. Ma questo non gli impedisce di doversi confrontare contemporaneamente con quattro terrorismi: i musulmani del Kashmir, i Sikh, i Naga, i Tamil. In Corea, fino all'anno scorso l'unico grattacapo del governo era politico: come negoziare un decoroso modus vivendi con il regime comunista del Nord. Ma verso la fine dell'anno il Paese è stato teatro di uno sciopero che ha messo duramente in discussione il modello di sviluppo degli anni precedenti. Il Giappone, d'altro canto, non accenna a uscire dalla sua lunga stagnazione. Il surplus della sua bilancia commerciale (742 miliardi di yen, con un aumento, in agosto, del 113,6% rispetto all'anno scorso) è segno, indirettamente, di cattiva salute: conferma che lo yen è debole, che i consumi nazionali non decollano e che le industrie riversano sui mercati internazionali buona parte della loro produzione. I guai del Giappone ricascano inevitabilmente sulle spalle dei suoi partner asiatici. Nello scorso luglio i negozi di Hong Kong hanno constatato con preoccupazione che il turismo giapponese nella città è sceso, rispetto all'anno precedente, del 61,7%. La Cina, in confronto, è un mo¬ dello di ordine politico e preveggenza economica. All'ultimo congresso del partito il Presidente, Jang Zemin, ha annunciato la riforma delle forze ar"' mate (500.000 uomini verranno smobilitati nel corso dei prossimi tre anni) e la privatizzazione delle industrie di Stato, vale a dire degli enormi kombinat che rappresentano tuttora i due terzi dell'economia nazionale. A un anno e mezzo dalla morte di Deng Xiaoping la Cina continua a fare rotta sull'economia di mercato. Ma nessuno, per il momento, ha spiegato ai cinesi e all'opinione internazionale come il governo intenda affrontare le ricadute sociali della sua politica. Se saranno reali, non formali, le privatizzazioni comporteranno la chiusura degli impianti obsoleti e un brusco aumento della disoccupazione. Ai 120 milioni di nomadi che hanno abbandonato le campagne e si aggirano per il Paese alla ricerca di un lavoro si aggiungeranno verosimilmente alcune decine di milioni di «esuberi». Che cosa accadrà di loro in un Paese in cui il «welfare» è rappresentato soprattutto dalla garanzia del lavoro e dai benefici comple¬ mentari (casa, spaccio, assistenza medica) che ne derivano? Stiamo parlando naturalmente di situazioni diverse. Il Giappone, le «piccole tigri», l'India e la Cina sono categorie economiche distinte, difficilmente comparabili. Ma appartengono allo stesso continente e s'influenzano a vicenda. Il pericolo, insieme all'effetto domino, è quello di una crisi che rimbalzi più volte da un Paese all'altro diventando lungo la strada sempre più grave e ingovernabile. Ogni economia nazionale dell'Asia, in altre parole, corre il rischio di reimportare, ingrossati, gli stessi problemi che aveva esportato qualche mese prima. Non basta. La tesi corrente vuole che alle origini dei grandi successi asiatici degli ultimi trent'anni (prima il Giappone, poi le ((piccole tigri», la Cina, l'India) vi sia il modello «confuciano»: autoritarismo, paternalismo, lealtà aziendale, disciplina sociale, solidarietà fra le generazioni. Dovremo concluderne che la «via confuciana allo sviluppo» è in crisi? Mi par di vedere il sorriso di Fausto Bertinotti e di quanti hanno sempre rifiutato di arrendersi agli imperativi economici della globalizzazione. Rifondazione comunista sosterrà d'ora in poi, verosimilmente, che l'Asia non è più l'alibi di cui il capitalismo occidentale si sarebbe servito per imporre la logica del profitto sulle esigenze della solidarietà sociale. Ma siamo davvero certi che esista in Asia un modello confuciano? A Cernobbio, in occasione del Seminario Ambrosetti, Gad Lerner ha moderato una trasmissione televisiva sul welfare state a cui ha partecipato, tra gli altri, George Yeo, ministro della Cultura e viceministro per l'Industria dello Stato di Singapore, vale a dire del Paese che ha maggiormente teorizzato in questi ultimi anni 1'«etica asiatica del lavoro». Ma Yeo non ha detto nulla, in quella e in altre circostanze, che non sia stato detto in momenti diversi della maggior parte dei Paesi europei. L'«etica confuciana» assomiglia come una goccia d'acqua all'etica protestante o vittoriana. L'autoritarismo e il paternalismo sono gli strumenti con cui l'Europa ha fatto, sino alla seconda guerra mondiale, la sua rivoluzione industriale. Il patriottismo aziendale dei giapponesi ricorda quello dei grandi gruppi industriali, come la Fiat, sino alle contestazioni studentesche e operaie della seconda metà degli Anni Sessanta. Il senso della famiglia e la solidarietà fra le generazioni sono virtù caratteristiche di tutte le società tradizionali e sono praticate tuttora, anche se in forme diverse, da larghe parti della società italiana. La crisi giapponese, gli scioperi coreani e le dimostrazioni di Bangkok sembrano dimostrare che il modello, dopo la grande «marcia allo sviluppo» dell'ultima generazione, accenna a incrinarsi. Non ne sarei sorpreso. Non vi è espansione economica che non esiga, prima o dopo, una certa ridistribuzione degli utili fra coloro che hanno concorso a renderla possibile. Ma, attenzione: la principale causa dei mali che stanno affliggendo le «piccole tigri» non è sociale. Alle origini della crisi del bhat non vi è la rivolta dei «servi della gleba», ma il cattivo funzionamento di un capitalismo che ha dimenticato di osservare alcune fra le sue regole più elementari. Lo sviluppo ha ubriacato alcune migliaia di persone che si sono impegnate in affari incerti e traballanti. Le banche hanno elargito prestiti generosi, a basso tasso d'interesse, senza accertare la serietà del cliente e dei suoi progetti. Buona parte del denaro è finita nella costruzione di case e uffici che nessuno oggi è in grado di comprare o affittare. Non appena gli investitori intemazionali hanno cominciato ad aggrottare le ciglia le banche hanno cercato di coprirsi provocando fallimenti a catena. Il «bubble», la grande bolla di sapone che avvolgeva negli scorsi mesi l'economia thailandese, è scoppiata. Così accadde in Messico qualche anno fa. Così accadde in Italia, su scala minore, pochi anni dopo l'unificazione nazionale. Vi è da sperare che il bastone e la carota del Fondo Monetario Internazionale - una importante linea di credito e l'obbligo di una maggiore disciplina finanziaria servano a bloccare il male e il contagio. Le previsioni nel frattempo sono meno catastrofiche di quanto non si pensi. Nel 1997 la Thailandia crescerà soltanto del 2,5% (6,4% nel 1996) e il Giappone dell'1,1%. Ma l'Indonesia registrerà un aumento del 7%, la Malaysia del 7,5%, la Corea del Sud del 6%, Singapore del 6%, Hong Kong del 5,3% e la Cina, infine, del 9,5%. Complessivamente, secondo il Fondo Monetario Internazionale, la crescita della Thailandia, della Malaysia, dell'Indonesia, delle Filippine e della Corea del Sud sarà del 3 o 4% inferiore alle previsioni degli scorsi mesi. Ma l'economia asiatica continuerà a essere la più dinamica e promettente economia del mondo. Sarebbe un errore quindi pensare che la crisi thailandese possa rimettere in discussione la creazione di un grande mercato globale e assolva l'Europa dall'obbligo di rimettere ordine a casa propria. La crescita e la concorrenza delle industrie asiatiche non sono la versione moderna del «pericolo giallo». Sono anche e soprattutto l'apparizione sulla scena mondiale di quasi tre miliardi di clienti, pronti a invaderci con le loro merci, ma anche a lasciarsi invadere dalle nostre. Se l'Asia cessasse di crescere saremmo tutti più poveri. Sergio Romano In Thailandia perduti un milione di posti di lavoro Tremano Malaysia e Indonesia e arrancano persino la Corea e l'ex modello Giappone "' tre anni) eindustrie mHMM Qui accanto tre bambini taiwanesi e nella foto grande una panoramica di Singapore

Persone citate: Ambrosetti, Deng Xiaoping, Eisenhower, Fausto Bertinotti, Gad Lerner, George Yeo, Jang Zemin, Naga, Suharto