STEINER LA PASSIONE CONTRO LA CATTEDRA di Geno Pampaloni

LA MEMORIA LA MEMORIA di Geno Pampaloni LA cultura è un movimento, per lo più ascensionale, da ciò che sappiamo a ciò che ci premerebbe sapere meglio. C'è in essa un fondo immobile, il patrimonio di base che abbiamo costruito e arricchito nel corso della nostra vita; e c'è una parte lievitante, che cresce di pari passo con la nostra esperienza. La cultura ha un doppio aspetto e valore: è innanzi tutto memoria, poi è stimolo, work in progress. E' solitudine, pensiero intimo e segreto; ed è comunione, dialogo, scambio perenne e vitale. Siamo, in ultima analisi, ciò che sappiamo, e la memoria è il residuo e insieme il polline della nostra vita. La memoria, come un lupo famelico, assale a tradimento. Sorge dagli ipogei del passato, e si proietta sin dove la fantasia ci accompagna. Ricordare è rivivere, vivere in una dimensione seconda. E' la nostra prigione, e la via di fuga, aperta verso l'ignoto. Dice Rilke: «Dev'essere autunno, là dove donne innamorate sanno di noi». L'autunno è il paese delle ombre lunghe, riverbero del sole d'estate, e presagio delle ombre che annunciano l'inverno. La memoria è un patrimonio, racchiuso in uno scrigno segreto, e una moneta da spendere giorno per giorno. Non si può vivere senza memoria, mentre si può vivere senza speranza. E' dura e inflessibile al pari di una condanna, e insieme duttile e plastica come una creta o una cera. Non c'è memoria senza vita, cosi come non c'è vita senza memoria. Della memoria siamo al tempo stesso figli e padri. Essa è solitudine e comunione. E' il nostro specchio; ma anche specchio ustorio, che brucia l'inessenziale. La natura della memoria è la fedeltà, ma anche il luogo dei tradimenti. Ha in sé un'ambiguità magica e sublime, conserva e cancella, custodisce e disperde. E' un dono divino, e una condanna imperitura. Come ciò che veramente fa parte di noi, contiene la vita e la morte. Ci accompagna dovunque e sempre, sino, come dice la parola cristiana, all'eia della nostra morte. STEINER, LA PASSIONE CONTRO LA CATTEDRA Una critica alternativa aWaccademia EORGE Steiner è un degno nipote della Vienna-Atene della filosofia, delle lettere e delle arti, quella di Freud, Frege, Kraus e Wittgenstein, per intenderci. La meritata reputazione internazionale di cui gode si fonda su una erudizione prodigiosa ma sempre discreta e affabile, uno humour sottile, una vigorosa eleganza di stile. Se è vero che «leggere è comparare, sempre», pochi come lui sanno muoversi tra epoche ed ambiti espressivi diversi. Ma quello che lo rende ancora più unico e prezioso è un sentimento globale del fatto culturale, un'accorata passione per le sorti civili di uaapolis che è diventata villaggio mondiale, aggravando contraddizioni e scompensi, correndo verso una barbarie soft. La domanda che torna insistente in questi suoi splendidi saggi 1978-1996 (ottimamente tradotti da Claude Béguin) è di quelle che pochi oggi vogliono porsi: che senso ha occuparsi del «pensiero assoluto»? E se sì, in quali modi? Questo pensiero può concorrere a migliorare il tono civile di una società, o è destinato a restare confinato nella fruizione di pochi, non felici, ma almeno consapevoli? Steiner parte da un quadro: il commovente (per noi, qui e ora) «Filosofo che legge» di Chardin (1734). Vi si vede un uomo di mezza età, in elegante giacca di broccato bordata di pelliccia e copricapo, come abbigliato per una cerimonia, che è poi cortesia e rispetto per l'opera che legge. Accanto a lui, un lungo calamo per le annotazioni («l'intellettuale è, semplicemente, un essere umano che legge i libri con una matita in mano»), e una clessidra, che «proclama la relazione tra il tempo e il libro»: la vita del lettore si misura in ore, quella di un testo in millenni. E' lo scandalo su cui si è soffermato anche Flaubert: lui sarebbe morto come un cane, quella «puttana» di Emma Bovary sarebbe vissuta per sempre. Chardin, dice Steiner, è un virtuoso del silenzio, che è poi la condizione prima e autentica di ogni lettura. E il suo filosofo è un campione di quella comunità di uomini colti che si riconoscevano nella capacità di citare a memoria lunghi brani della Bibbia, di Omero, Virgilio, Orazio, o Shakespeare. Nasceva così una ricca rete di riferimenti condivisi che diventava patrimonio comune di una società; e ogni discorso poggiava sulle solide basi di una auctoritas, da cui traeva peso e sostanza. Si affaccia qui il dubbio, già sollevato da Frances Yates nel suo L'arte della memoria, che l'invenzione della stampa e, da allora, la crescente disponibilità dei testi, abbiano ucciso la capacità di metabolizzare nel profondo un'opera par coeur, come dicono i francesi, dove cuore, mente e memoria coincidono. Oggi questa patria comune di classici, questa rete condivisa di padri sommi non esiste più. E siamo al secondo degli obiettivi polemici su cui Steiner batte da anni: l'interpretazione (leggi: lo specialismo accademico fine a se stesso) che sopraffa il testo, che prolifera mostruosamente, senza ricordare che solo le opere mediocri possono essere interpretate o capite. A Steiner interessa ascoltare «la musica che abita il pensiero» e questa musica si perde troppo spesso nel rumore di fondo delle presunzioni ermeneutiche. Non c'è lavoro critico che riesca a esaurire la profondità del Dichter, il «pastore dell'essere», il «proclamatore di verità», «colui che sa eticamente» o «si batte per strappare l'umanità alla morte»: Sofocle, Dante, Goethe, Hòlderlin, Tolstoj, Kafka, Rilke, Paul Celan. «Se fossi stato il miglior Dichter - si rimproverava Canetti - avrei potuto fermare questa guerra o impedire questo massacro». Dall'elenco resterebbe escluso Shakespeare, criticato da Wittgenstein, ma anche da Tolstoj e da Eliot, in quanto illusionista e prestigiatore, virtuoso della parola e «creatore di lingua» più che poeta. Shakespeare si ostina a non prendere posizione sul problema di Dio, e questo anche agli occhi di Steiner è colpa grave, se è vero che l'arte, la musica e la letteratura, quando sono grandi, affrontano proprio la presenza o l'assenza della di¬ vinità, o «si pongono in diretta emulazone di Dio, quell'altro artigiano». Oggi che «lo sfidante estremo» sembra essersene andato, è sparito con lui gran parte del pubblico. Per questo motivo, la violenza di un secolo ricco di atrocità e disastri non produrrà un Rinascimento della tragedia, proprio perché manchiamo di senso del religioso. Impossibile anche soltanto accennare alla quantità di stimoli che Steiner offre al lettore occupandosi della traduzione o della storicità dei sogni, di Kafka e di Kierkegaard, di Socrate e di Gesù, dell'antisemitismo cristiano che mezzo secolo fa ha trovato la sua eruzione terminale nel cuore dell'Europa cristiana. Per tornare alle domande dell'inizio, è magistrale l'analisi della filosofia della cultura negli Stati Uniti, cioè nel luogo dove è meglio organizzata. Ebbene, dice Steiner, la diffusione della conoscenza e l'innalzamento della soglia della sensibilità non moltiplicano i geni. Gli americani vogliono rendere l'eccellenza totalmente accessibile al volgo, quasi a correggere la distrazione o lo snobismo di Dio, ma così facendo producono soltanto banalità predigerite. Il «pensiero assoluto», il Dichter, rimangono antisociali, antigregari, quasi autistici. Paradossalmente, fioriscono nel deserto della solitudine, dell'incomprensione, della repressione totalitaria, fra alti costi sociali; sembrano apprezzati solo dalle dittature, che hanno avuto buoni occhi, in Germania, come in Unione Sovietica, per identificarli, da Mandel'stam a Brodskij. L'aveva detto anche Borges: «La censura è la madre della metafora». Ernesto Ferrerò

Luoghi citati: Europa, Germania, Stati Uniti, Unione Sovietica