LA RIVINCITA D'IRLANDA UN'ONDATA DI STORIE

tuttolibri tuttolibri LA STAMPA Giovedì 11 Settembre 1997 A 1suoi «Taccuini» sono un cielo stellato in cui tuffarsi a caccia di comete Y | O non avevo le due cose più importanI ti: un grande magnetismo animale o i I soldi. Però avevo le due cose secondaI rie: un bell'aspetto e l'intelligenza. Così AJ ho sempre avuto le migliori ragazze». Dove per «ragazze», in realtà, si intende Zelda. «Aveva gli occhi colmi di giallo e di lavanda, giallo per il sole attraverso le persiane gialle e lavanda per la trapunta, rigonfia come una nube e vagante alla deriva in molli marosi sopra il letto...Guizzò in una vestaglia violetta, gettò all'indietro di scatto i capelli con un movimento circolare della testa, e si sciolse nel colore della stanza»». Francis Scott Fitzgerald, Taccuini: come un cielo stellato in cui tuffarsi, a caccia di comete. «Io e lei eravamo soliti sederci al piano e cantare. Avevamo diciotto anni, e così ogni volta che arrivavamo alle parole imbarazzanti, come EUREKA \ \ ragazzo dorato "amore, tesoro" o "passione" o "piccina mia", nella lirica saltavamo le parole indelicate con rapidi mormorii». Accanto alla lucentezza abbagliante di certe frasi, però, anche squarci di buio, talvolta quasi dissimulati («La mia signora beve nelle sue scarpe di raso»), più spesso invece espliciti («Siamo rimasti senza gin, disse lui. Gradiresti una pastiglia di bromuro?»), fino all'amarezza totale, priva di illusioni («Ho abbandonato la mia capacità di sperare lungo le stradine che portavano al to sanatorio di Zelda»), E' molto più raro di quanto non si pensi che biografia e opera di un autore coincidano così intimamente come nel caso di Fitzgerald, dorato ragazzo incapace di dimenticare - anche nei momenti più radiosi - la caducità delle cose e le deperibilità dei giorni felici, destinati a svanire per sempre. Libro quasi unico nella sua sincerità (mai uno scrittore aveva svelato tanto di sé, tranne che Fitzgerald stesso, nel precedente The Crack-Up, 1936), Taccuini parrebbe adatto - se letto per tempo - a scoraggiare improvvise vocazioni letterarie, visto il prezzo pagato da Scott per l'immortalità: prima la rovina, poi l'oblio mentre era ancora in vita, infine la morte. Io l'ho scoperto troppo tardi. Giuseppe Culicchia Anche nei momenti più radiosi non dimentica la caducità dèlie cose, la vanità dei giorni felici Sopra Roddy Doyle A destra James Joyce MARIONETTE OSTIE AURORE Ecco una rassegna dei titoli di narrativa irlandese da poco in libreria. GIOCHI DA RAGAZZO William Trevor Guanda. pp. 224 L. 23.000 IL VIAGGIO DI FELICIA Guanda. pp. 232 L. 25.000 MARIONETTE DEL DESTINO Guanda, pp. 228 L 25.000 LA NOTTE DI KEPLERO John Banville Guanda. pp. 216 L. 26.000 LA SPIEGAZIONE DEI FATTI Guanda. pp. 224 L 26.000 ATHENA Guanda. pp. 240 L 29.000 UNO SPLENDIDO ISOLAMENTO Edna O'Brien len Feltrinelli, pp. 184 L. 26.000 PADDY CLARK AH AH AH Roddy Doyle Guanda. pp. 228 L. 26.000 ROSSETTO SULL'OSTIA Henry Mathews Bollati Beringhieri pp. 224 L. 35.000 AURORA CON MOSTRO MARINO Neil Jordan Bompiani, pp. 174 L 26.000 I VERI CREDENTI Joseph O'Connor Einaudi, pp. 210. L. 13.000 [Seamus Heaney] STATION ISLAND Mondadori, pp. 172 L. 40.000 UNA PORTA SUL BUIO Guanda. pp. 96 L. 16.000 ATTENZIONI Fazi. pp. 250 L. 28.000 LA RIVINCITA D'IRLANDA: UN'ONDATA DI STORIE Capifila Trevor e Banville, nel segno di Joyce OSSO permettermi di scrivere ciò che ad ogni orecchio irlandese che si rispetti suona come una bestemmia? La grande ventura della cultura letteraria dell'Irlanda, almeno a partire dal Settecento, si deve alla spesso feroce conquista inglese, all'assoggettamento di un popolo di «selvaggi», secondo il benevolo epiteto loro inflitto dagli ufficiali inglesi già nel Cinquecento. Ma è la rivincita per così dire morale, quella che conta: gli irlandesi si impadronirono della lingua inglese e la infusero del loro spirito celta, ricreandola. In una composizione di Seamus Heaney, premio Nobel e ai vertici assoluti della poesia contemporanea, l'ombra di Joyce gli si rivolge e, incoraggiandolo, dice perentoriamente: «La lingua inglese appartiene a noi». Semplice, no? Dicevo, almeno dal Settecento. Del nostro secolo ben sappiamo: le figure decisive della letteratura in lingua inglese sono, in realtà, irlandesi, da Wilde a W. B. Yeats, da G. B. Shaw a Joyce, per non riferirsi a Samuel Beckett, che costituisce, per così dire, un capitolo in sé e per sé. Ma alla radice di tutto quanto di nuovo esiste nel romanzo contemporaneo, come riconobbe a suo tempo il formalista russo Sklovski in Teoria della prosa e oggi, poniamo, Salman Rushdie riconoscendo il proprio debito, sta l'irlandese Laurence Sterne soprattutto per il suo Tristram Shandy, pur senza dimenticare il Viaggio sentimentale, tradotto da Ugo Foscolo. Qualcuno vorrebbe annettere all'Irlanda anche Jonathan Swift, riluttante ad accettare questa etichetta («Nascere in una stalla non significa-che si è un cavallo»: bella battuta di humour irlandese). Ma veniamo alla irresistibile ondata di autori irlandesi che ci sta felicemente travolgendo. Non si tratta in senso stretto di una novità, e se ce ne siamo accorti soltanto in questi ultimi anni è colpa nostra. La forbice, se si vuole, risulta molto ampia. Badiamo alle date, considerando due dei maggiori scrittori irlandesi ormai largamente tradotti in Italia: William Trevor e John Banville. Il primo è nato nel '28, il secondo nel '45, e tra i due si collocano personalità di grande spicco. Penso a Edna O'Brien, ormai nota al pubblico italiano, anche se con una certa gradualità, e al nord-irlandese Brian Moore, che ha soggiornato a lungo in Canada prendendone la cittadinanza e non ha mai davvero sfondato da noi, per motivi che mi sfuggono. O'Brian è del '32, Moore addirittura del '21, e, pur avendo lasciato il Paese, potrebbe far propria la frase di Joyce a chi gli chiedeva del suo volontario esilio: «Non ho mai lasciato l'Irlanda». Ma torniamo alla forbice Trevor-Banville, perché in entrambi sussistono tematiche e scelte di fondo abbastanza peculiari della letteratura degli irlandesi. Trevor, come romanziere e come irresistibile autore di narrativa breve, è partito dalla rappresentazione spesso ilare pur se talora amara di un mondo di eccentrici, di irregolari, di sfrenati trasgressori, coerentemente con il classico appellativo di «crazy Irishman», irlandese matto, per giungere poi alla dimensione della violenza, del conflitto, sempre in una simbiosi non meno peculiare tra storia privata e storia pubblica. In quanto a Banville, significativamente ammirato in Italia da Claudio Magris, non saprei parlare di lui meglio di George Steiner, uno dei critici più acuti e brillanti in circolazione: «Estetica e criminalità, l'enigma insieme filosofico e materiale dell'arte mistificata, il legame tra l'Eros e le solitudini del sesso, sono intrecciati in modo indimenticabile». Steiner fa i nomi di Thomas Mann e di Musil, e dichiara che due sono oggi, sulle opposte sponde dell'Atlantico, i massimi scrittori di lingua inglese: John Updike e lui, Banville. Alla densità concettuale e talora criptica di Banville si contrappone lo scatenamento popolaresco, il grado zero di lin¬ guaggio e di comportamento, con un taglio di rapidità volutamente cinematografica, di Roddy Doyle, il quale rischia talora il repertorio ma trova spesso il colpo d'ala che gli fa superare le limitazioni dell'effimero. L'ombra di Joyce, dunque. Stranamente, ma fino a un certo punto, l'influenza dominante rimane quella del cattolico Joyce assai più di quella del protestante Yeats, che pure fu il demiurgo indispensabile del cosiddetto «rinascimento celtico», del ritrovamento e del rinnovamento di una tradizione che affondava le sue radici secolari nei valori; anche linguistici, di una cultura e di una civiltà il cui leggendario passato druidico si fondeva con l'apporto cristiano. Joyce, dunque, vuol dire molte cose: la rappresentazione del privato in cui la quotidianità viene trascesa, il trasferimento del contingente nel mito, fino a una reinvenzione dell'epica, il processo di iniziazione, il continuo esperimento sul linguaggio con le sue rivelazioni, le «epifanie», paradigmi di una singolare ricreazione della religiosità, dell'illuminazione. «I Vangeli non sono consolanti» confessa la protagonista dell'intenso Rossetto sull'ostia di Henry Mathews accostandosi ai sacramenti dopo la tragica conclusione della sua storia d'amore; i «veri credenti» del titolo di Joseph O'Connor sono quelli per i quali la fede perde il suo valore salvifico, onde se ne deve cercare un'altra. Sopravvissuti a un periodo di lotte crudeli, come il Moran di John McGahern, o tuttora immersi nella crudeltà del conflitto, nelle pagine di Neil Jordan, forse il più «magico» di tutti, con Heaney, tra narrativa e cinema: la storia batte alla porta. Né si dimentichi il. teatro, ad esempio Brian Friel, la cui risonanza, ha notato Guido Almansi, è europea, e non solo irlandese. E neanche la musica. In particolare due sono i nomi d'obbligo: il raffinato Van Morrison e la dura Mary Coughlan. Il discorso vale per Heaney, egli stesso nord-irlandese, per la sua rivisitazione e la-sua rifondazione del mito ancorato alla natura, al paesaggio esplorato nel linguaggio e vigorosamente concettualizzato nei saggi critici. Vale la pena di rifarsi proprio a Yeats, al verso memorabile di «Pasqua 1916», la data della sanguinosa repressione inglese: «Una terribile bellezza è nata». Claudio Gorlier Un brutto carattere nostalgico dell'Ira trent'anni John McGahern (n. 1934) si segnalò con libri di matrice autobiografica che fecero scandalo in patria per il ritratto gretto e squallido della società irlandese di allora, in un tempo cioè in cui non si erano ancora spenti gli echi dei gloriosi fermenti di indipendenza e identità nazionale; fu quasi il primo a segnalare come il conseguimento dell'obiettivo tanto agognato fosse seguito da un lungo periodo di ristagno e di mediocrità. Antico militante dell'Ira, il piccolo possidente Moran, eroe del romanzo in cui nel 1990 McGahern ha ripreso e condensato un po' tutti i temi della sua narrativa (e che come gli altri si colloca verso la fine degli Anni MORAN TRA LE DONNE John McGahern trad. Susanna Basso Einaudi pp. 216. L. 25.000 MORAN TRA LE DONNE John McGahern trad. Susanna Basso Einaudi pp. 216. L. 25.000 Cinquanta), osserva malinconicamente a un certo punto che l'unico portato della rivoluzione è che adesso qualche connazionale occupa posti di spicco un tempo riservati agli inglesi, ma in compenso invece di lavorare nei campi i ragazzi vanno tutti a fare il muratore a Londra. Nell'Irlanda rurale di McGahern persistono ancora sacche di religiosità fanatica e repressiva e di dispotismo paterno, focolari dove l'uomo spadroneggia e le donne subiscono a capo chino; ma la nuova generazione rompe i ponti con quella precedente, che non capisce più, pur senza avere niente di esaltante da proporre. Possiamo seguire il mutamento attraverso la storia del protagonista, offerta attraverso una serie di episodi minori, raccontati in tono asciutto e continuo, senza divisione in capitoli, da quando, vedovo ancora in gamba, Moran si risposa con una donna alquanto più giovane di lui, a quando muore, durante la ricorrenza annuale del Monaghan Day, tradizionale riunione di tutta la famiglia. Moran è un uomo solitario, energico e di pessimo carattere, maldestro coi motori ma infaticabile nel far fruttare i suoi campicelli, il cui fieno nutre diverse bestie; egli regna su tre figlie adolescenti e un ragazzo, Michael, inutilmente dotato per la matematica. Il figlio Luke ferita aperta Moran ha una ferita aperta di cui per orgoglio non parla con nessuno, il pensiero del figlio maggiore Luke, che non sopportando l'intransigenza paterna un bel giorno se n'è andato senza salutare, e adesso ristruttura case nella metropoli britannica. Il destino di Moran è di comunicare male con gli uomini, ma in compenso di ricevere molta indulgen¬ za da parte delle donne: Rose, che si innamora di lui incontrandolo alla posta, riesce a imporsi sia ai propri genitori sia alle figlie di Moran stesso, fino a farsene accettare incondizionatamente. Dal canto loro, le ragazze assecondano il padre anche quando le sue proibizioni sono assurde, una in particolare rinuncia alla borsa di studio che le consentirebbe di diventare medico solo perché Moran non tollera che il proprio sangue alimenti una classe odiata. Col volgere delle stagioni (pur senza lirismo, McGahern non è insensibile alla singolare bellezza dell'Ovest agricolo) e col passare degli anni, Moran sembra sempre di più un sopravvissuto di epoche tramontate, ma a casa nessuno glielo fa notare, e fino all'ultimo egli conduce fieramente il rosario ogni sera, circondato da moglie e figli in ginocchio. Tuttavia i rampolli crescono e spiccano il volo, traumaticamente, di nuovo, il maschio, che duramente rimproverato per un'evasione sentimentale fugge a raggiungere il fratello a Londra; più blandamente ma non meno avvertibilmente le figlie, che benché in gamba e lavoratrici sposano uomini deboli e mediocri, e mettono al mondo bambini con cui Moran sente di non avere quasi più nulla da spartire. Simbolicamente, più la famiglia aumenta, più si disunisce, benché Moran per rispetto alla scelta delle figliole cerchi sportivamente di accettare i generi. In McGahern l'odio cieco per il padre-padrone descritto nel suo primo romanzo, «The Dark», si è matu¬ rato in una sorta di comprensione sconsolata dell'animale inesorabilmente condannato a estinguersi con tutta la sua razza; allo stesso tempo sugli irlandesi del futuro lo scrittore ha da dire poco di positivo, al massimo li descrive come persone oneste, un po' smarrite e senza spessore. Tuttavia le figlie di Moran il loro dovere lo fanno fino in fondo: anche nell'ultima ricorrenza fatale sono lì, tutte intorno al padre, a circondarlo, sotto l'obbedienza, di affetto. Masolino d'Amico Ricordo

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