Madre Teresa un addio lungo 7 ore

Dalla piccola chiesa allo stadio con i potenti della Terra: un corteo di poveri e dolore ha attraversato Calcutta Dalla piccola chiesa allo stadio con i potenti della Terra: un corteo di poveri e dolore ha attraversato Calcutta Madre Teresa, un addio lungo 7 ore Funerale di Stato, poi è stata sepolta dalle sue suore CALCUTTA DAL NOSTRO INVIATO Addio, piccola suora. Madre Teresa di Calcutta. Addio a te, che in questi lunghi giorni ci hai donato l'illusione che esista ancora l'amore verso gli altri. Addio al tuo vecchio corpo straziato, tenuto in vita per dar tempo ai potenti della terra di preparare lo show del cordoglio. Ma addio anche al tuo lungo funerale, che ci ha sbattuto in faccia la realtà, facendoci ricordare di nuovo che il mondo è diviso dalle transenne. E i poveri, i disgraziati, i pariah di ogni società, gli sconfitti della storia, possono guardarti andar via soltanto da dietro quelle transenne. L'avevamo dimenticato. Ma ora, addio. La vecchia suora Madre Teresa ora riposa per sempre nella piccola fossa bianca scavata nel suo convento, di lato a un cortiletto che il sole tocca appena. Le faranno compagnia tre alberi magri. L'hanno voluta seppellire le sue suore senza gli occhi indiscreti del mondo, in un silenzio geloso. E intanto fuori, nella strada, era ripreso lentamente il traffico. Il tram scampanellava con stizza, per disperdere gli ultimi curiosi; dal minareto vicino, il muezzin ha alzato il suo canto, ad Allah potente e misericordioso. Era anche finita la pioggia. La vita ricominciava. Il viaggio di Madre Teresa verso l'ultima morte era durato sette ore. Era partito al mattino, dalla piccola chiesa di Saint Thomas, con gli alti onori militari che l'India aveva voluto concedere a questa sua figlia adottiva. Otto ufficiali portavano a spalla la bara, Madre Teresa aveva il volto scoperto e un rosario tra le mani; la bandiera l'avvolgeva come un lenzuolo funebre. Era apparso un raro sole, ieri mattina, e i colori brillanti delle uniformi, i pennacchi rossi dei soldati, le loro lunghe creste di amido, il candore delle corone dei fiori, facevano splendere la giornata. La vecchia India del Raj imperiale, con le sue cerimonie solenni, i maharaja, i turbanti sinuosi, gli ori della sua tradizione millenaria, tornava a sfilare all'improvviso nel viale alberato di Middleton Road; era come se la storia si fosse presa una rivincita sul corso del tempo. E la banda suonava dentro le cornamuse scozzesi la stessa marcia lenta che accompagnava la morte dei sahib. Anche il vecchio cannone sul quale gli ufficiali hanno deposto la bara si portava addosso la polvere della storia, l'ombra del lungo viaggio che vi avevano già fatto il Mahatma Gandhi e Pandit Nehru. E di storia sapevano le file strette di Gurka schierate sotto gli alberi, nei due lati del viale, con la loro severa uniforme verde e il cappello kaki calato di traverso. Per una volta, i soldati che mai si sono arresi avevano abbassato la testa, come impone la legge simbolica del lutto; anche i fucili erano capovolti, con la baionetta piantata in terra. Era il riconoscimento di una sconfitta, davanti alla morte, e le due rigide schiere di uomini senza paura tributavano così l'ultimo onore. La cerimonia funebre è stata celebrata nel palasport, al coperto, per timore della pioggia che, in questa stagione di monsoni, assale l'India con grandi ventate di nuvoloni neri. E dentro lo stadio, su un lungo altare bianco, cinque cardinali e vescovi hanno celebrato la messa cantando le lodi del Signore dei cristiani. La bara era stata deposta ai piedi dell'altare, sotto un grande lenzuolo candido che mostrava una scritta in inglese: «Le opere di amore sono opere di pace». Di fronte alla bara, ma anche di fronte a questo messaggio non solo religioso, sedevano i capi di Stato e i governanti venuti da ogni parte del mondo. C'erano i presidenti dell'India, dell'Italia, dell'Albania e del Ghana, la regina Fabiola del Belgio, Noor di Giordania, e Sofia di Spagna, le first lady di Francia e Polonia e Hillary Clinton degli Stati Uniti, la duchessa di Kent in nome della regina Elisabetta, e poi un centinaio di ministri, ambasciatori, generali, e rappresentanti speciali. Un palasport non è una chiesa, e gli addobbi non bastano a restituirgli austerità, e solennità. Le porpore squillavano di colore, il coro delle suore ha intonato il «Gloria», l'eucarestia è stata una cerimonia severa; i dignitari avevano abiti scuri, e molte signore erano vestite di lungo. Lenti e caldi, nell'aria si levavano gl'incensi. Ma la cerimonia è passata via come uno spettacolo senz'anima, che il grande spazio vuoto dello stadio non riusciva a trasformare in un rito di emozioni collettive. E' stato soltanto un ufficio, un dovere pubblico, esercitato nel rispetto consapevole delle forme. Il cardinale Sodano, messo del Papa, ne era il celebrante. In un solo momento, appena pochi attimi, la cerimonia ha ritrovato il filo della tensione ideale che in tutti questi giorni aveva accompagnato la lunga morte di Madre Teresa. E' stato all'inizio della messa. Un'orfanella aveva portato all'altare il pane, e una donna liberata dal carcere aveva portato l'ampolla di vino; poi è stato 0 turno di un handicappato, che reggeva un calice di ostie. L'orfanella e la ragazza erano figure simboliche, astrazioni del dolore; facevano appello alla nostra ragione, più che ai nostri sentimenti. Ma quell'uomo che stentava a muovere i passi, che pativa ogni movimento con sofferenza estrema, le mani tremanti, il volto teso e sudato, quell'uomo era la realtà concrèta, di carne e dolore, che la vecchia suora aveva voluto riscattare alla dignità di una nostra responsabilità comune. La lenta camminata di questo disgraziato è sembrata durare un'eternità che non finiva mai, e il suo passo incerto era accompagnato dalla tensione improvvisa dell'intero piccolo stadio, che lo reggeva con gli occhi, lo teneva su, ne guidava la direzione insicura, l'articolazione inceppata. Quando, alla fine del suo calvario, l'uomo è arrivato ai piedi dell'altare, i 12 mila che stavano sotto quella cupola fredda si sono sentiti stringere il cuore: il poveretto ha tentato un passo per salire il primo gradino, ma ha sbandato, ha oscillato come una canna senza equilibrio, e il calice gli è ballato pericolosamente nella mano. Nel silenzio drammatico che gelava lo stadio, c'è stato un grido improvviso, soffocato a stento. Il cardinale Sodano è sceso allora, lui, nei tre gradini, ha preso il calice dalla mano dell'offerente, e poi, con un gesto lieve, gli ha accarezzato la testa. L'intero palazzetto ha emesso mi sospiro di sollievo, la sofferenza aveva incrociato per un attimo la strada dei governanti della terra. Nella sua bara aperta, anche Madre Teresa sembrava ora più serena. Il cardinale ha letto un'omelia che ha voluto ricordare il valore di tolleranza che stava nell'opera della suora: «Soltanto quando impareremo a guardare agli altri come nostri fratelli, soltanto allora saremo sulla strada della pace», ha detto. E poi ha ceduto il microfono all'India, alla storia antica di questa terra che è patria di culture e teologie che hanno radici perdute nel tempo: ha parlato, prima, un guru hindù, poi un ùnam musulmano, poi un sacerdote sikh, poi ancora un lama buddista, e infine un officiante parsi. Le loro voci recitavano salmi distinti, ma affascinava l'identità dei toni e delle parole che riempivano la fredda volta del palasport. In quella semplice sequenza, si realizzava comunque la predicazione di un dovere universale di amore come scelta obbligata dell'uomo e non come patrimonio di una religione. Finita la messa, i governanti hanno deposto le loro corone, secondo l'ordine rigido del protocollo. Prima i presidenti, poi le regine, poi le first lady, poi i ministri, ultimi gli ambasciatori. Il rito è durato quasi due ore, e nell'uniformità diplomatica di tutti è parsa imbarazzante la scelta tedesca, di presentare una corona tanto grande che a reggerla occorrevano due soldati. L'uditorio ha inviato applausi cortesi per tutti, ma un applauso più lungo è andato alla duchessa di Kent, e uno più caloroso a Sonjia Gandhi. Poi il corteo è ripartito. Finiva così il primo funerale, quello riservato ai potenti della terra. Ma cominciava il secondo, quello del popolo di Madre Teresa, la gente comune, i semplici, i disgraziati, gli storpi, i poveri, gli uomini e le donne senza speranza e senza futuro. Il primo funerale aveva avuto il sole, al secondo toccava naturalmente la pioggia: anche il Signore sa quali sono le leggi che reggono il nostro mondo. La bara è stata coperta da un telo di plastica, e l'affusto di cannone ha iniziato l'ultimo tragitto, verso la casa-madre delle Missionarie della Carità. Sotto la pioggia, però, per molti la stanchezza aveva finito per prevalere, e dietro le transenne del percorso il popolo di Calcutta (forse mezzo milione, forse un milione) ha vissuto con profonda tristezza quest'ultima sua festa mancata. La loro Madre ormai era soltanto un largo telo bagnato di plastica grigia. La cerimonia ufficiale è terminata alle 3 del pomeriggio, con un rituale solenne. Quando la bara è entrata nella cripta del convento, una suora, sporgendosi da una piccola finestra, ha fatto un segnale, giù, verso la strada. L'ufficiale di servizio ha ordinato l'attenti, e il plotone di Gurka ha sparato tre salve di fucileria. Poi quattro trombettieri del Rajputh Regiment hanno suonato il silenzio d'ordinanza. L'eco del suono si è perduta lentamente verso la città, in quel momento muta. Un suora era morta per sempre. Addio, Madre Teresa di Calcutta, città dell'inferno in terra. Mimmo Candito Otto ufficiali hanno portato la bara in spalla Nel palasport gli omaggi offerti dai simboli della sofferenza L'omelia del cardinale Sodano «Soltanto quando impareremo a guardare agli altri come nostri fratelli, soltanto allora saremo sulla via della pace» m Sotto: militari indiani portano in spalla il feretro di Madre Teresa coperto dalla bandiera A destra: Hillary Clinton davanti alla bara della missionaria