Rafter com'è bello il tennis d'attacco di Stefano Semeraro

Ha vinto gli Us Open con spettacolari volée Ha vinto gli Us Open con spettacolari volée RoHer, com'è bello il tennis d'attacco NEW YORK. Gli australiani sono un popolo giovane, forse per questo sanno scavarsi una tradizione anche nelle piccole cose. Così guardare Pat Rafter saltare come un canguro sopra la tribuna del centrale di Flushing, domenica scorsa, è stato come rivedere il free-climbing di Pat Cash sui box di Wimbledon, giusto un decennio fa, dopo la vittoria su Lendl: «L'aveva fatto Cash - ha confessato più tardi-, avevo progettato di farlo anch'io». Del resto anche Rafter si chiama Pat, anche lui, come il vecchio Pirata, gioca la volée con quel talento raffinatissimo ed acrobatico che è tutto degli aussies. Rafter contro Rusedsky, un australiano contro un canadese trapiantato in Inghilterra poteva sembrare una finale in minore, buona per gli open del Commonwealth, non per il torneo più duro del mondo. Invece è stato un match vero, divertente, spettacolare soprattutto negli ultimi due set. Fatto di scambi al volo, di lob, di passanti, risposte, di tantissime volée. Rafter ha vinto perché di volée ne sbaglia davvero pochissime, al contrario di quanto ha fatto in finale Rusedski, perché sa attaccare come ci eravamo ormai dimenticati che si potesse fare, sostenuto da una condizione fisica perfetta, da una tecnica finalmente completa. Da questa settimana Rafter è il n. 3 del mondo e forse Edberg e Cash hanno trovato il loro erede. Forse da domani - come si è augurato John McEnroe - i ragazzini proveranno ad imitare Pat, forse il futuro del tennis sarà più divertente, lontano dal sudore, dal lift e dalla monotonia degli spagnoli. Di sicuro per Pat, terzo di nove fratelli, non è stato facile trovare la strada giusta per il successo, imboccata solo a 24 anni, dopo due anni di malanni fisici (un'operazione al polso, guai ricorrenti alla spalla e al ginocchio), un solo misero torneino vinto a Manchester nel 1994, il palcoscenico di casa perduto per fare spazio al cannoniere Philippoussis. «Roche e Newcomr be mi avevano sempre detto che per giocarmela con i più forti mi mancava un 10% - ha raccontato Pat -, che c'ero quasi, ma che dovevo fare un passo in più». I vecchi saggi raramente si sbagliano. Il ragazzo aveva stoffa, bisognava sgrezzarlo, coccolarlo con rudezza in quel team affiatato e viaggiante, fatto di coach, giocatori, ex campioni, che sono gli australiani nel Tour, costretti dalla geografia a ri- manere insieme anche per 6,7 mesi lontano da casa. Newcombe, capitano di Davis, gli ha dato fiducia, Roche ha innestato solidi colpi da fondocampo sul genio aereo di Pat: «Devo ringraziarli, perché hanno creduto in me quando ero io il primo a non crederci». La svolta è arrivata proprio in Davis quest'anno, contro la Francia, con i due set recuperati su Pioline, poi si sono aggiunte una semifinale di Parigi e cinque finali: tutte perse. La sesta però era la più importante. L'ultimo australiano vittorioso qui era stato proprio Newcombe, nel 1973. E ora, Pat? «Ora mi piacerebbe diventare n. 1, anche se fino a ieri non ci pensavo neppure, ma con Sampras è durissima». Per rimanere in alto Rafter ora ha bisogno di continuità, e la continuità, con il suo tennis da arrembaggio, non è merce facile. La prima verifica seria è l'imminente semifinale Davis con gli yankee, che peraltro da questi Open sono usciti a pezzi. «Pat può farcela - ha detto Newcombe -. Qui a New York ha trovato dentro di sé quel qualcosa in più che altri non trovano mai in tutta la vita. E' un australiano vero». Come da tradizione. Stefano Semeraro

Luoghi citati: Francia, Inghilterra, Manchester, New York, Parigi