MAALOUF L'ODIO NON FA SCALO

IL CONSIGLIO IL CONSIGLIO di Aldo Nove TAXI Driver» è un'ossessione che fa della storia del cinema un luogo aperto da squarci profondi. Ognuno di questi squarci-film è fonte ineducabile e costante di rinnovamento. La visione e l'effetto di questi film è la carne di cui il cinema, negli anni, cannibalescamente si nutre e sopravvive. Alberto Pezzotta ha scritto un'esile (nel formato) libro monografico (Martin Scorsese. Taxi Driver, L. 15.000) sul capolavoro più inquieto di Scorsese. Scavando a fondo su ogni aspetto del film-mito Alberto Pezzotta ce ne riconsegna il contesto d'origine, la sinossi, il complesso lavoro del regista, congedandoci con un'acutissima lettura critica. E chiudendo con un'ipotesi: «L'ambiguità di Taxi Driver non sarà mai risolta. E per questo continueremo» rivederlo». ,r cues. Non evitano la contraddizione i convincimenti più solidi e duraturi di Flaubert: l'assurdità della vita, che immiserisce anche le aspirazioni più generose della giovinezza e fornisce affioramenti, che si direbbero ogni volta insuperabili, di umana stupidità. Il che non impedisce che questa vita, esposta alle frustrazioni di un desiderio che a tratti si tinge di assoluto, a un laico vanitas vanitatum, imponga di essere raccontata, di realizzarsi con tutte le sue aporie nel supremo appagamento dell'arte. Come dice Bogliolo, Flaubert «si assegna, all'opposto e in un certo senso a completamento e risarcimento della Creazione, l'impresa altrettanto miracolosa dì riconvertire la Carne in Verbo». Lo stesso dogma dell'impersonalità si rivela poco più di un espediente retorico. Se è vero che escogita il discorso indiretto libero per rientrare sommessamente nella narrazione e che, immedesimandosi totalmente nell'opera, finisce per «rendere plausibile, l'abbia o no pronunciata, la celebre affermazione "Madame Bovary sono io"».' (La Madame Bovary proclamata con finezza da Bogliolo una «sorta di don Chisciotte romantico e insieme di Fedra paesana»). Tra i testi di cui disponiamo nel Meridiano, dati in traduzioni aggiornate e di mano eccellente (Caproni, Cremisi, Cucchi, De Maria, Spaziami, fa caso a sé L'educazione sentimentale del 1846, il primo vero romanzo scritto da Flaubert e tenuto nel cassetto. Con il capolavoro del 1869 ha in comune poco più del titolo, ambiguo e fortunatissimo. C'è anche qui la storia di una delusa iniziazione alla vita, sdoppiata più di quanto non accada nel libro successivo in un protagonista e comprimario, tra cinismo e idealismo. Mentre la conversione di Frédéric Moreau alle lusinghe del successo e della mondanità non riesce ad avere ragione dell'amore incompiuto e per questo intangibile, irrfinitamente prezioso, per Madame Arnoux. Manca inoltre nella prima Educazione, viziata tra l'altro dagli squilibri strutturali e dalla presenza «impudica» dell'io, la volontà di offrire, attraverso i casi di Frédéric, il romanzo di una generazione, della sua inettitudine davanti all'occasione rivoluzionaria del '48. Anche se ci viene proposto un ricco e a tratti superbo campionario di figure, situazioni, riflessioni sul mestiere di scrittore. Basti archiviare, a futura memoria, il disprezzo di Jules «per tutte le poetiche del mondo» e la natura del suo apprezzamento per Omero e Shakespeare: «... ciò che lo affascinava di più, in codesti due Padri dell'arte, era il loro avere saputo unire la passione con la combinazione...». Ma la lettura del nostro romanzo è resa più stuzzicante dalla traduzione, finora inedita, di Giorgio Caproni, che fornisce un'altra testimonianza della sua lunga amicizia con la letteratura francese. Caproni, come ci informano le osservazioni linguistiche di Silvia De Laude, si propone una fedeltà accanita all'originale, documentata dagli spogli lessicali e dalle fitte note a margine. Un residuo di appropriazione «d'autore» si avverte negli idiotismi toscani (la ricorrente parola forbicìo per restituire il chiacchiericcio, il brusìo...) mentre i preziosi arcaismi, i rimandi precisi agli scrittori dell'Ottocento (dall'insospettabile : Fogazzaro a Manzoni, a D'Annunzio) valgono a restituire più intimamente questo Flaubert «italiano» al tempo che fu suo. E' una suggestiva storia nella storia, questo incontro di due grandi nell'arengo impassibile e fervido della scrittura. Lorenzo Mondo IL POETA BUONO NEL PAESE DEI LUPI L'UOMO CHE MANGIO' CARNE DI SERPENTE Vaza-Psavela Campanotto pp. 236 L. 25.000. L'UOMO CHE MANGIO' CARNE DI SERPENTE Vaza-Psavela Campanotto pp. 236 L. 25.000. E' un Paese d'Europa dove il Medio Evo è durato fino alla seconda guerra mondiale: con i suoi riti cruenti, ma anche con la sua tradizione cavalleresca, non troppo diversa da quella che ispirò i poemi del ciclo carolingio. E' l'alta Georgia, rinserrata fra le vette del Caucaso: dove sono mal convissuti, facendosi guerra l'un con l'altro per mille anni - e ancora ne pagano le conseguenze - gli psavi e xevsuri cristiani e i ceceni islamici, oggi sanguinosamente approdati alle cronache mondiali. Quanto siano stati duri i costumi e spietata la storia fra quelle valli dimenticate ce lo dice il nome stesso del Paese: che non nasce, come penseremmo, da san Giorgio, pur venerato lì in tanti luoghi, ma dalla parola di origine persiana «gurg», il lupo. Da un mondo di lupi ci vengono i poemi del georgiano Vaza-Psavela (1861-1915), tradotti ora per la prima volta in italiano dallo slavista Luigi Magarotto con la collaborazione dell'iranista Gianroberto Scarda. L'autore, montanaro nelle midolla, non è sicuramente un naif. Pur avendo trascorso la maggior parte della vita nel suo Paese, conosceva Goethe, Hugo, soprattutto Tolstoj, al quale si sentiva più vicino di ogni altro nell'animo. Era nato in un villaggio psavi, gruppo caucasico passato al cristianesimo nel quarto secolo, senza perdere mai del tutto i sedimenti dell'antica religiosità pagana. Figlio di un.pope, aveva studiato a Tiflis, e poi a Gori, nello stesso seminario frequentato qualche anno dopo da un suo più noto conterraneo, Josif Giugasvili, meglio conosciuto come Stalin. Vaza-Psavela era anche stato, per un anno, all'Università di Pietroburgo; e poi, non potendo pagare né le tasse né la pigione, se ne era tornato fra le sue montagne, a vivere tolstoianamente della terra. Di giorno lavorava i campi; di notte, scriveva. I suoi poemi in ottonari ci mettono di fronte un teatro barbarico, contraddetto da solitari - e puniti slanci di fraternità. Sono lotte di paese, regolate da codici feroci, fra gruppi divisi da un crinale di monte e da un abisso di storia, perché nessuno dei due dimentichi l'odio che deve portare all'altro. Al nemico ucciso, sanno gli psavi cristiani, bisogna tagliare la mano destra, perché la sua anima non riposi in pace. Se ha colpito uno dei nostri impone la consuetudine ai ceceni musulmani - lo si deve portare su quella che sarà la sua tomba, e lì mozzargli la testa. Ma c'è chi contawiene a queste leggi. Il cristiano Aluda Ketelauri, protagonista del primo poema, scelto come campione dalla sua comunità per vendicare un affronto dei ceceni, inizia un dialogo con il campione avversario, che pure dovrà uccidere. Appartengono tutti e due alla razza dei cavalieri antiqui, come quelli dell'Ariosto, leali fra loro anche se «di fé diversi». Non solo Aluda rifiuta di tagliare la mano al rivale dopo averlo abbattuto, ma, nella festa del santo patrono, sacrifica addirittura un torello per la sua anima. Gesto sacrilego, che lo farà mettere al bando. Il ceceno Goqola, nel secondo poema, «L'ospite e il forestiere», si spinge anche più in là nella trasgressione. Invita in casa propria un uomo incontrato sui monti senza sapere che è il più pericoloso guerriero cristiano: «Oggi è il gior¬ no che ci conoscemmo / domani fratelli saremo», gli dichiara. E, anche dopo che i suoi compaesani avranno scoperto il nemico, cerca di mantenere l'impegno, in nome di ima legge per lui più importante, quella dell'ospitalità. Inutilmente: finiranno tutti e due travolti dalla furia della tribù. Non saranno gli ideali cavallereschi ad avere ragio- II poeta georgiano Vaza-Psavela (1861-1915): per la prima volta in italiano una raccolta di suoi versi edita da Campanotto ne della storia. Gli avvenimenti degli ultimi anni - come osserva Magarotto - dimostrano che il mondo di Vaza-Psavela è ancora lì, con il suo Medio Evo. Senza che altri cavalieri antiqui - se ne sopravvivono - riescano a sventolare U vessillo di san Giorgio, nella terra del lupo. Giorgio Calcagno MAALOUF, L'ODIO NON FA SCALO GLI SCALI DEL LEVANTE Amin Maalouf trad. di Egi Volterrani Bompiani pp. 192 L 26.000. GLI SCALI DEL LEVANTE Amin Maalouf trad. di Egi Volterrani Bompiani pp. 192 L 26.000. A quando ha cominciato a prendere coscienza di sé, il romanzo moderno ha sempre guardato con malcelato imbarazzo, se non addirittura con palese vergogna, al romanzesco: dapprima, mettendo in atto laboriose e contrapposte strategie, ha lungamente cercato di mascherarlo o di giustificarlo, poi ha finito per bandirlo, relegandolo nei gironi più bassi della letteratura di consumo e promuovendo a unica, raccontabile peripezia quella della propria genesi. Ora, alla fine di un secolo in cui su questa dialettica autolesionista il romanzo ha giocato gran parte della propria crescita e della propria crisi, il romanzesco torna ad avere libero e degno corso, un po' per la necessità di rivitalizzare un genere che, a forza di esercizi ascetici, era arrivato alle soglie dell'asfissia, un po' per la suggestione esercitata dalle letterature emergenti che ripropongono, fuori di ogni ragione di dottrina e di scuola, l'antico e puro piacere del narrare. In Francia questa sollecitazione ha operato dall'interno, favorita dal crollo di ogni residua linea di demarcazione tra la letteratura metropolitana e quelle che si sono prepotentemente sviluppate nelle diverse aree della francofonia: nel giro degli ultimi anni - e non solo per il premio Goncourt che li ha ugualmente consacrati - il fiabesco maghrebino di un Tahar Ben Jelloun, l'epos caraibico di un Patrick Chamoiseau e l'avventuroso mediorientale di un Amin Maalouf hanno ottenuto una piena e definitiva legittimazione francese. Ora, nell'ultimo romanzo di Maalouf, Gli scali del Levante, quello che prima poteva sembrare il felice innesto di temi e modi esotici nel tronco di una solida e un poco esausta tradizione culturale e linguistica diventa attiva e consapevole integrazione: la vicenda si dipana in un arco di tempo che va dal ricordo favoloso della dissoluzione dell'impero ottomano alla tragica realtà del conflitto israelo-palestinese; il protagonista ha l'aura degli eroi predestinati della leggenda, ma vive la sua vita d'eccezione in un secolo in cui la storia diventa un fatto corale e alle imprese individuah concede solo casuali ed estemporanei spiragli; e la visione del mondo a cui si ispira - un profondo e insopprimibile «rifiuto dell'odio» da qualunque ideologia o fede venga pregiudicato - gli consente di muoversi con la stessa lucidità tra le molteplici tensioni etniche del Medio Oriente e nella Francia lacerata tra Occupazione e Resistenza. Il racconto, denso di eventi e ricco di colpi di scena - la guerra, la clandestinità, l'internamento in un ospedale psichiatrico, nella duplice cornice di una struggente storia d'amore e di una fastosa e crudele saga familiare -, ha il nitore, la^secchezza e

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