Azzam la spia che non sapeva d'esserlo

Shamir: perché disprezzo Netanyahu, piccolo premier La difesa ha smontato le prove ma il giovane druso rischia venticinque anni di carcere Azzam, la spia che non sapeva d'esserlo Oggi al Cairo il verdetto sull'israeliano m REPORTAGE r IL CAIRO DAL NOSTRO INVIATO Questa mattina il giudice Moharram Darwish renderà noto il verdetto dell'Alta Corte per la Sicurezza dello Stato nei confronti di Azzam Azzam, druso israeliano di 34 anni, accusato di spionaggio a favore del governo di Gerusalemme. La sentenza, al termine di una controversa vicenda giudiziaria, rischia di diventare un caso diplomatico che potrebbe ripercuotersi sui fragili equilibri della ventennale <cpace fredda» fra Egitto ed Israele e dello stagnante precesso di pace in Medio Oriente. Azzam Azzam, rappresentante della ditta tessile israeliana «Tifon» del gruppo «Delta», proviene da un villaggio druso della Galilea. I drusi sono un'eresia musulmana non araba dalle radici antiche, e vivono a cavallo della incandescente frontiera del Golan ma tanto in Siria che in Israele sono cittadini a pieno titolo, raggiungendo spesso responsabilità elevate nella pubblica amministrazione e nell'esercito. Azzam Azzam, per l'abilità dimostrata nell'export, era stato scelto dalla «Tifon» per occuparsi degli investimenti in Egitto. E quando, il 2 novembre del 1996, giunse al Cairo, doveva trattarsi solo di uno dei suoi tanti viaggi di affari. Ma quel giorno, ad aspettarlo nella hall dell'hotel «Baron» di Heliopolis - l'elegante quartiere di politici e militari, dove abita anche il presidente Hosni Mubarak - trovò gli agenti del «mukhabarat», i servizi segreti egiziani. Arrestato e condotto al commissariato centrale, si trovò di fronte a un verbale che lo accusava di spionaggio a favore di Israele. La firma su quei fogli era stata messa da un egiziano che Azzam Azzam conosceva bene. Emad Ismail, 24 anni, dipendente anch'egli della «Tifon» e suo uomo di fiducia in Egitto, aveva rilasciato il 19 ottobre precedente una lunga dichiarazione nella quale ammetteva di essere stato «reclutato» per il Mossad da due arabe-israeliane Zahra Youssef Jeris e Mona Ahmed Shawahna - e che poi era stato proprio Azzam Azzam a «coordinare il suo lavoro», finalizzato alla raccolta di informazioni sui progetti di sviluppo economico nei dintorni del Cairo, noti come le «Città nel deserto». Secondo i servizi egiziani Emad Ismail rilasciò «spontaneamente» la sua confessione che venne poi «provata» dal ritrovamento a casa di Ismail di una sostanza definita «inchiostro invisibile», nascosta nel risvolto di alcuni indumenti femminili. Posto di fronte a quel testo Azzam Azzam ebbe a malapena la possibilità di chiamare la propria ambasciata, prima di ritrovarsi in una cella della prigio¬ ne di Tura, a pochi passi da quella che ospitava l'uomo che lo aveva accusato. L'Egitto poteva annunciare a quel punto l'arresto della terza «spia dei sionisti» catturata dall'accordo di Oslo, e la scoperta della ventesima «rete del Mossad» dalla firma degli accordi di Camp David nel 1979. Azzam Azzam rischiava la pena capitale. Ne seguiva una violenta campagna di stampa anti-israeliana, dai toni spesso anti-semiti, amplificata dal fatto che pochi giorni dopo l'arresto di Azzam Azzam si apriva al Cairo il summit economico sul Medio Oriente, convocato a sostegno del negoziato di pace fra Israele e palestinesi. La campagna dei media contro «il progetto sionista di sfruttare la pace per dominare economicamente l'Egitto e l'intero popolo arabo» fu tale che Azzam Azzam non riusciva neanche a trovare un awo- cato d'ufficio. Accusato di spionaggio rischiava la pena capitale senza potersi difendere. Dopo una serie infinita di rifiuti, a fine marzo ad accettare la «proposta indecente» di difendere Azzam Azzam fu un avvocato molto noto al Cairo, Farid Al Dib. La sola notizia del «sì» di Al Dib scatenò una tempesta dentro l'Associazione nazionale dei giuristi, che deferì ai suoi probiviri u «traditore» ed inviò poi addirittura un manipolo di facinorosi all'udienza del 18 maggio scorso per aggredirlo e malmenarlo in pubblico. Ma Al Dib si è messo al lavoro e, passo dopo passo, dall'apertura formale del processo, il 24 aprile 1997, ha guidato il dibattimento sul sentiero di una vicenda che sembra più un romanzo rosa che non una spy story. Nelle sei udienze celebrate Al Dib ha raccontato che Emad Ismail, nato in un piccolo villaggio del delta del Nilo, durante un viaggio in Israele aveva incontrato Zahra Youssef Jeris. I due si amavano, si telefonavano ma temevano di non potersi mai sposare perché lei era israeliana. Fu così che decisero di incontrarsi ad Amman per un'ultima «fuga d'amore», terminata con la scelta di non vedersi più. Cosa ha tutto questo a che vedere con le spie? «Nulla» secondo Al Dib, che ha portato come «prove a conferma» i nastri delle registrazioni telefoniche fatte proprio dai servizi segreti egi- ziani. Ismail dunque non fu «sedotto e reclutato» ma era solo «innamorato». E l'inchiostro indelebile trovato negli indumenti da donna, esaminato da un perito, è risultato essere «polvere di limone» usata per conservare gli abiti. L'ultimo affondo Al Dib lo ha riservato per l'udienza del 24 agosto, quando ha detto al giudice che Ismail ritrattava le accuse contro Azzam Azzam, rivelando che gli «erano state estorte durante più interrogatori». Anche una perizia neutrale ha confermato che la calligrafia di Ismail su quei fogli è «innaturale e forzata». Mentre Farid Al Dib ed il suo rivale nell'aula, il procuratore Isham Badawi, si davano battaglia, sullo sfondo del processo è iniziata una partita a scacchi fra II Cairo e Gerusalemme. Israele ha inviato i suoi ministri della Difesa e degli Esteri da Mubarak per assicurare che «Azzam non è una spia». Poi è toccato a Benjamin Netanyahu in persona dare la sua parola. Il Cairo non poteva continuare sulla linea della pena capitale e così l'accusa è passata a spionaggio «solo» economico, chiedendo 25 anni. Ma Israele teme che dietro il caso Azzam ci sia dell'altro: il tentativo delle potenti lobbies industriali del Nilo di evitare in qualsiasi maniera l'integrazione economica con lo Stato ebraico nel timore di confrontarsi con la concorrenza. Insomma, una guerra commerciale. Anche Washington è intervenuta, con discrezione, chiedendo «moderazione» al Cairo. Poi nell'ultima settimana Gerusalemme ha messo da parte la diplomazia, annunciando di aver catturato una «spia egiziana». Si tratta di Nadia Fawdeh, 45 armi, cittadina araba israeliana sposata ad un medico egiziano, accusata di essere stata colta con le mani nel sacco mentre fotografava installa' zioni militari israeliane nei pressi di Akko, sul Mediterraneo. La noti zia ha avuto grande risalto in Egit to e lascia intuire il rischio deU'é splosione di una vera e propria «guerra di. spie» fra i due Paesi,. a causa del caso Azzam Azzam, che precipiterebbe Mubarak nel cuore delle tensioni fra Arafat e Netanyahu. A meno che, come suggerisce il tamtam dei giuristi egiziani, «non prevalga il dubbio fra la love story e la spy story» e quindi Azzam, condannato a una pena più mite, possa affidarsi a un «gesto di clemenza» di Mubarak per poter tornare a casa. Risparmiando al Medio Oriente un'altra crisi. Maurizio Molinari L'accusa: «Sedotto da un'agente del Mossad Portava con sé inchiostro simpatico avvolto in biancheria femminile». Ma era solo un prodotto per conservarla fresca Lavora per una ditta che opera in Egitto Potrebbe essere caduto in un grande gioco di guerra commerciale Da sinistra il presidente Mubarak una veduta del Cairo e (in alto) un imputato nella gabbia di un tribunale della capitale egiziana