America, l'Impero delle lobby

America, l'Impero delle lobby Politica estera ostaggio di ebrei e anticastristi, petrolieri e europei dell'Est e decine d'altri gruppi di pressione America, l'Impero delle lobby Il potere debole del gendarme del mondo ARTHAS Vineyard, dove Bill e Hillary Clinton hanno passato le loro vacanze, è un'isola di fronte alla costa del Massachusetts, tradizionale ritrovo estivo e invernale per la buona borghesia della Nuova Inghilterra. Un anno fa, nell'imminenza delle elezioni presidenziali, i consiglieri della Casa Bianca scossero la testa e consigliarono fermamente alla coppia presidenziale di scegliere un altro luogo di villeggiatura, meno elegante e snob. Quest'anno hanno chiuso un occhio e lasciato che il Presidente facesse di testa sua. Clinton è stato promosso. Si è staccato dal gruppo dei Presidenti che hanno esercitato il potere per un solo mandato - Coolidge, Hoover, Johnson, Carter, Bush - ed è ormai felicemente installato nella «serie A» del firmamento presidenziale americano. Soltanto un improbabile impeachment potrebbe privarlo del diritto di considerarsi a tutti gli effetti un Presidente «a tempo pieno». E poiché la Costituzione non gli consente di «correre» per una terza volta, può sfidare i pregiudizi popolari di una parte dei suoi elettori e passare le vacanze nell'isola più snob della costa orientale. Questa legittima soddisfazione suscita in Clinton, apparentemente, nuove ambizioni. Non gli basta essere stato rieletto. Vuole passare alla storia come uno dei maggiori Presidenti del ventesimo secolo. Ma i grandi Presidenti, nella storia degli Stati Uniti, sono quelli che hanno lasciato un segno sull'immagine internazionale della nazione. Nessuno ricorda la politica interna di Truraan o Nixon; tutti ricordano la Dottrina Truman, il Piano Marshall, il Patto Atlantico, il riconoscimento della Cina, l'uscita dal Vietnam, gli storici negoziati con l'Unione Sovietica. Per essere un grande Presidente, quindi, Clinton deve fare una grande politica estera. Perché non dovrebbe riuscirvi? Ha tutto ciò che gli occorre: un'economia sana, una società dinamica, una instancabile ricerca tecnologica, una straordinaria potenza militare, un sistema di basi che avvolge come una rete gran parte del pianeta. Ciò che Bush intravide nel 1990 e nel 1991 - un mondo governato dagli Stati Uniti - potrebbe diventare realtà nell'ultima parte della presidenza Clinton. L'uso del condizionale è giustificato dall'assenza nell'arsenale presidenziale di un ingrediente necessario: il potere. Paradossalmente il Presidente degli Stati Uniti, soprattutto dopo la fine della guerra fredda, ha meno autorità, nella gestione degli affari internazionali, di quanta non ne abbiano, in con- dizioni normali, il Presidente della Repubblica francese, il Primo Ministro britannico e il Cancelliere tedesco. Comanda le forze armate e può, all'occorrenza, cancellare dalla carta geografica, con un'azione di rappresaglia, il quartier generale di Saddam Hussein o del colonnello Gheddafi. Ma la sua politica estera deve tener conto della maggioranza repubblicana al Congresso ed è una specie di gimkana attraverso tutte le lobby, i pregiudizi, gli umori popolari, gli interessi settoriali che condizionano la politica americana nel mondo. Il risultato, molto spesso, è un intruglio di sapori diversi: un po' di Realpolitik, un po' di idealismo, un po' di egoismo economico, un po' di elettoralismo. Ecco qualche esempio, tratto dalla cronaca degli affari correnti. Il Medio Oriente e la lobby ebraica. I segretari di Stato hanno capito da un pezzo, probabilmente, che l'unica soluzione del conflitto arabo-israeliano è nella creazione di uno Stato palestinese. Questa crisi infinita conferisce agli Stati Uniti un ruolo arbitrale, ma li espone ai contraccolpi del terrorismo e all'ostilità di una larga parte dell'opinione araba. Il Presidente che salutò entusiasticamente, sul prato della Casa Bianca, lo storico accordo fra Rabin e Arafat non può certo approvare una politica gretta, repressiva, priva di qualsiasi prospettiva razionale. In teoria Clinton dispone dei mezzi necessari per costringere gli israeliani ad addolcire la loro posizione. Può interrompere gli aiuti e le forniture militari sino al giorno in cui il governo di Gerusalemme non avrà rinunciato a nuove costruzioni e insediamenti in zone arabe. Ma nella realtà deve tener conto dei gruppi ebraici negli Stati Uniti e delle alleanze che essi riescono a stringere con alcuni settori della vita politica americana. La Svizzera e la lobby di New York. Quando scoppiò lo scandalo dei patrimoni depositati dalle vittime del genocidio nelle banche della Confederazione, l'amministrazione americana incaricò Stuart E. Eizenstat, sottosegretario agli Affari economici, di esaminare la faccenda. Ne uscì un rapporto che riconosce il buon diritto delle comunità ebraiche. Da allora, tuttavia, il governo ha fatto un passo indietro. Ha capito che la campagna anti-Svizzera si presta a interpretazioni maliziose (quali e quante banche potrebbero trarne vantaggio?) e sta suscitando un'ondata di patriottismo elvetico. Ma il caso gli sta scappando di mano. Si è formata in questi mesi una «lobby di New York» composta da uomini politici, come il senatore Alfonse D'Amato, che tengono d'occhio il voto dell'elettorato ebraico. Mentre si avvicinano le elezioni per il rinnovo della sua carica, il Comptroller (tesoriere) della città, Alan G. Hevesi, ha preso a diffondere una newsletter (Swiss Monitor) in cui le banche svizzere sono sottoposte a un bombardamento psicologico. Cuba e la lobby dei cubani in Florida. Il regime di Fidel Ca- stro non è peggiore degli altri regimi comunisti sopravvissuti alla caduta del muro di Berlino. La sua pagella, in materia di diritti umani, non è più nera di quella di Pechino. Ma esiste in Florida, da più di una generazione, una lobby composta da esuli cubani, ormai cittadini degli Stati Uniti, che ha una parte importante nella vita politica dello Stato e al momento delle elezioni presidenziali. Contro Castro, quindi, sono validi e utilizzabili tutti gli argomenti ideali che la diplomazia americana, quando tratta con Pechino e Hanoi, ha riposto nel cassetto. Come se l'embargo non bastasse, il Congresso, dal canto suo, ha approvato una legge - il «Helms Burton Act» che prevede sanzioni contro qualsiasi ditta straniera stringa rapporti d'affari con aziende cubane confiscate ai loro antichi proprietari. I proprietari, beninteso, vivono in Florida e hanno oggi il passaporto americano. Moralmente giusto? Forse. Ma si dà il caso che l'ambasciata americana di Varsavia sorga su un terreno confiscato agli antichi proprietari e che il governo degli Stati Uniti sostenga di avere stipulato il contratto, a suo tempo, con il «legittimo» governo polacco. Forse che i comunisti di Varsavia erano più legittimi di quelli dell'Avana? Non è tutto. La legge Helms Burton ha irritato gli europei e ha suscitato uno dei peggiori contenziosi euro-americani dalla fine della seconda guerra mondiale. L'Iran, l'Azerbaigian e la lobby petrolifera. Gli Stati Uniti hanno dichiarato una guerra politica al regime «teocratico» di Teheran e hanno punito economicamente l'Azerbaigian per l'espulsione di circa 400 mila armeni durante il conflitto tra le due repubbliche caucasiche per il controllo del NagornoKarabach. Nel caso di Teheran, in particolare, l'ostilità degli Stati Uniti si è spinta sino all'adozione della legge D'Amato che prevede sanzioni contro qualsiasi azienda petrolifera si azzardi a fare grandi investimenti in Iran. Ma l'Azerbaigian, nel frattempo, è diventato il più promettente Paese petrolifero del mondo dopo l'Arabia Saudita. Un consorzio, composto in buona parte da ditte americane, prevede, per lo sfruttamento del petrolio azero, un oleodotto attraverso l'Iran. La Casa Bianca, gentilmente, acconsente. L'Onu e il partito isolazionista. Da Wilson a Roosevelt, le Nazioni Unite sono un grande sogno dell'idealismo americano. Ma dopo la fine della guerra fredda, quando la maggiore organizzazione internazionale avrebbe potuto assumere sulle proprie spalle la responsabilità della pace in Africa, nei Balcani e nell'Asia meridionale, l'America ha ceduto alle sue vecchie tentazioni isolazioniste (o, meglio, unilateraliste), ha dichiarato guerra a Boutros Ghali, non paga le quote d'associazione e accetta che la bandiera dell'Orni sventoli, di fatto, soltanto sulle operazioni che coincidono con i suoi interessi strategici. La Nato e le lobby dell'Europa centrorientale. La Germania fu riunificata, sette anni fa, nell'intesa che l'America non ne avrebbe approfittato per modificare a proprio vantaggio l'equilibrio dei rapporti EstOvest. Si aprì allora la prospettiva di un nuovo «concerto» europeo in cui l'Occidente avrebbe garantito la sicurezza della Russia e collaborato alle sue grandi riforme. Da quel momento, tuttavia, Washington ha permesso che la sua politica europea cadesse sotto l'influenza di una grande lobby composta dai gruppi etnici della regione - polacchi, cechi, ungheresi, baltici, ucraini - e da alcuni fra i maggiori esponenti della realpolitik americana (Kissinger, Brzezinsky). Il risultato è l'allargamento della Nato verso Est, ovvero un evento che i russi, con ragione, percepiscono come ostile e minaccioso. Potrei ricordare altri esempi, potrei parlare della politica verso il Giappone su cui pesano le forti interferenze delle maggiori imprese americane. 0 i grandi negoziati economici internazionali peY i quali Clinton attende l'autorizzazione del Congresso e deve guardarsi le spalle dall'ostilità dei sindacati. Giungeremmo alla stessa conclusione: che non vi è area geografica o problema internazionale in cui la politica estera americana non sia il risultato di un compromesso fra l'interesse generale degli Stati Uniti, come è percepito dalla sua migliore classe dirigente, e una miriade di interessi locali o settoriali. Questa, piaccia o no, è la maggiore potenza mondiale. Una ragione di più perché gli europei si preoccupino maggiormente della loro unità. L'Euro non è soltanto una nuova moneta nel mercato dei cambi. E' una risposta alla supremazia del dollaro, una «dichiarazione di indipendenza». Sergio Romano Clinton timido con Netanyahu anche quando non rispetta gli accordi. E dà l'ok all'oleodotto nel nemico Iran perché lo vogliono le 7 Sorelle Gli isolazionisti, riescono persino a non far pagare le quote all'Onu All'Europa non resta che la via dell'Euro còme «dichiarazióne di indipendenza» Corteggia i comunisti di Pechino ma assedia quelli di Cuba per compiacere gli esuli e espande la Nato solo per inseguire i voti polacchi e ungheresi In alto la bandiera americana fra i grattacieli e qui sopra Clinton Fidel Castro è la bestia nera degli esuli che condizionano Washington