La lunga marcia dei disperati

La lunga marcia dei disperati La lunga marcia dei disperati Dal Marocco a Imperia, nel ventre dei Tir IMPERIA DAL NOSTRO INVIATO Erano partiti dal Marocco e avevano riaperto gli occhi alla luce su questa vallata del Prino, fra gli ulivi di Imperia e il mare laggiù, in fondo alla discesa. Dopo quanto tempo? «Non so, non posso saperlo», ha risposto uno di loro. «Non contavo le notti perché non le vedevo più». A Dolcedo, quando sono arrivati i poliziotti, qualcuno si nascondeva nei cespugli, qualcuno scappava nei boschi senza troppa convinzione, qualcuno alzava le mani rassegnato in mezzo alla strada. Li hanno radunati sulla salita. Erano quasi cinquanta, erano 48, come numera adesso l'ultima busta gialla che hanno loro consegnato alla Questura di Imperia, quando li hanno concentrati nelle camere di sicurezza. Quella busta è la loro unica, vera valigia di viaggio: dentro ci sono solo delle sigarette spagnole, alcune fumate a metà e poi spente e conservate, ci sono dei brandelli di carta con degli indirizzi, un po' di accendini e qualche peseta, pochissime pesetas. E quei numeri sono i loro nomi, perché a ognuno di loro è stato dato il numero della sua busta. Amir è il 26, e aveva solo due sigarette spagnole e un fazzoletto bianco spiegazzato. L'interprete era il 37. «Ma erano tutti bravicristi», ha raccontato il poliziotto ai cronisti, «facevano pena. All'inizio abbiamo fatto la voce grossa, abbiamo urlato mettetevi in fila! Loro hanno abbassato la testa e si sono messi tutti in fila a marciare». Amir e il suo amico, e tutti gli altri suoi compagni di viaggio sono i nuovi soldati di questo esercito inverosimile. E' l'esercito dell'esodo, di un esodo che non ha paura di niente, nemmeno della galera. Amir e i suoi compagni adesso dovrebbero essere espatriati in Francia, come prevede la legge. Se la Francia non li prende (per mandarli a sua volta indietro alla Spagna, che penserà a rispedirli in Marocco), hanno ancora 15 giorni di tempo prima di essere espulsi. Sono i meandri delle leggi. Tortuosi come i viaggi dei clandestini. Questi 48 sono venuti passando dalla Spagna e dalla Francia, hanno raccontato così, a smozzichi, in Questura. Portati da due o tre Tir oltre la frontiera di Ventimiglia. Dicono gli agenti che un viaggio del genere «può costare anche un milione a testa». Se fosse vero, però loro sono sbarcati qui da noi senza neppure un soldo per pagarsi un caffè. C'erano tutti ulivi sui prati che scendevano e il cartello grande diceva «Dolcedo», quando Amir chiamava gli altri per dire che aveva male a un piede. Erano le sette del mattino. I tir dovevano averli lasciati in basso, sulla curva dell'autostrada. Bisogna scavalcare la rete e tagliare la boscaglia per scendere qui sulla stradina. Dovevano essere Tir di bestiame quelli che li portavano, «perché puzzavano terribilmente», hanno raccontato gli agenti. E puzzavano di tutto, anche di escrementi. Gli agenti, in Questura, avevano tutti i guanti per difendersi dalle malattie. Loro avevano quei vestiti da mercato, mocassini impolverati, pantaloni stropicciati, magliette da mare. Barbe lunghe di qualche giorno. Camminavano sparsi per la strada deUa Val Prino, nell'entroterra di Imperia, con facce disorientate. Dalle case li hanno visti e non capivano che cosa ci facesse tutta quella gente, lì, fra i boschi, e allora hanno cominciato a chiamare la polizia. Sembrava un'invasione, dalla curva continuavano a spuntare grappoli di marocchini, uno dietro l'altro, come se non dovessero finire mai. E' arrivata una volante, poi un'altra, poi un'altra e hanno visto che non bastavano ancora e hanno chiamato i carabinieri. La gente dalle finestre indicava quelli che scappavano, che si buttavano dietro ai cespugli. Li hanno presi e messi tutti insieme, come un esercito di brancaleone, tutti in fila, così sgualciti, così cenciosi. Qualcu¬ no di loro ha chiesto solo di poter bere: «Abbiamo sete, chissà quanto tempo che non tocchiamo l'acqua». Poi li hanno portati giù a Imperia, in Questura. A ognuno di loro hanno segnato un numero sul braccio, quello della busta. Hanno chiesto i loro nomi. Il primo, un ragazzino, ha detto: «Sono un palestinese, ho 17 anni», Non era vero, è marocchino come tutti gli altri. Gli devono aver fatto credere che agli italiani sono simpatici i palesti- nesi. Li hanno messi attorno a un tavolino, e il numero 37, quello di loro che sembrava più istruito, traduceva tutte le disposizioni. Mentre aspettavano il turno, stavano accovacciati a terra, nelle stesse posizioni che tenevano sui Tir durante questo viaggio ^terminabile, con le braccia a stringere le ginocchia schiacciate contro il petto. Il viaggio, hanno detto in Questura, dev'essere durato almeno due giorni, e dev'essere stata un'agonia, senz'acqua e senza pane, senza nient'altro che il mi raggio dell'Italia che sta dietro l'ultimo confine. Ma da qui, da Ventimiglia, molti di loro che hanno provato a venire per i sentieri dei vecchi contrabbandieri ci hanno lasciato le penne Per questo, l'hanno chiamato il passo della morte quello che dal la Francia portava i clandestini in Italia. Era il loro percorso: qualcuno li guidava lontano dalle strade, per stradine aggrappate ai dirupi. E molti sono preci pitati in fondo ai burroni. Ades so, spiegano i carabinieri, arri vano grazie ai «passeurs», come chiamano quelli che li nascondono nelle macchine o nei camion per bucare la frontiera. Poi magari li buttano fuori come questi, su una curva dell'Autofiori, 40 chilometri dopo la Fran eia. Amir aveva le gambe anchi losate, ha visto che c'era il mare in fondo agli occhi. «Non andiamo giù di là?», aveva chiesto Erano le 7 del mattino e aveva freddo. Pierangelo Sapegno Scaricati dai camion vestiti tutti uguali senza soldi e bagagli e con le scarpe bucate «Non contavo le notti perché non potevo vederle. E giorni senzaacqua» f Sopra il gruppo di clandestini scaricati dai Tir sulla Riviera ligure. A destra un'immagine dell'attentato all'Ippodromo

Persone citate: Ades, Pierangelo Sapegno, Prino