la CUCINA della gioia

LA STAMPA mestieri nel futuro. Gianfranco Vìssani, il cuoco più celebrato della nuova generazione, annuncia la grande svolta la CUCINA della gioia CIVITELLA PEL LAPO (TR) DAL NOSTRO INVIATO Uno e 92 d'altezza e 120 chili, Gianfranco Vissani è un cuoco immenso, un gigante che sembra uscito da chissà quali poemi d'una volta, da pagine di navigatori antichi che costeggiavano la Patagonia e favoleggiavano di esseri abnormi e misteriosi. Eppure a 45 anni ha la rapidità e la freschezza di un ragazzo febee: fare cucina per lui «è tutto», tra i fornelb gioca, inventa e gode. Ha mani toste e profumate, nulla in lui che evochi pratiche sanguinarie, squartamenti, zaffate e fumi di cotture, palpeggiamenti untuosi. La parola che ripete più spesso è «vita», la sua cucina vuole che sia come «un'amante». E finora i critici l'hanno lodato molto, fin da quando Edoardo Raspelli lo scoprì nei primi Anni 80. Attualmente è primo in Italia sulla guida dell'Espresso con 19 punti, e sulla Michelin ha raggiunto una seconda stella. E' lui, mago lindo profetico come ogni buon cuoco, a raccontare la cucina che verrà, il gusto vittorioso alla fine del millennio, dopo «le tante confusioni e improvvisazioni presenti». Un Vissani polemico. Sarà pure febee, ma di denti avvelenati ne ha parecchi, contro l'attuale imperversare delle mode fasulle, delle troppe e scriteriate guide gastronomiche, degli intellettuali che spettegolano sulla tavola citando Barthes e Lévi-Strauss. Depreca anche l'abbandono in cui versano le scuole nel suo campo: «Il mio amico Veltroni sa bene che la cucina è cultura: perché non provvede?». Lui non teorizza, non «insegna niente a nessuno»: ha fatto sempre e soltanto il cuoco; però sulle dita, sulla lingua, negli occhi, sente come una vampata che gli esplode dentro e gb dice dove andare e che cosa fare in futuro. Ragiona sul gusto suo, e di lì, da questo suo fremere di papille, da questa fregola iniziatica e gentile, parte per ricerche spontanee. Prevede una continuazione della migliore cucina odierna, ma più filante, più sublimata e corposa insieme. Niente di etereo, dunque, di sofisticato, di irraggiungibile per i comuni mortali, che nei cucinotti di casa zampettano frenetici per la fretta e scartano al volo confe zioni per il forno a microonde, o tolgono dal freezer la fatidica bistecca da stendere in padella con ancora tutti gli aghetti bianchi di ghiaccio addosso Niente di «trascendente», come diceva quel chiacchierone di Brillat-Savarin, magistrato gastronomo ai tempi della Rivoluzione francese. E tuttavia s'impone una svolta: Vissani esige da chi l'ascolta una con versione bella e buona. Fare cu cina è un punto d'arrivo; prima c'è un'educazione, persino una crescita interiore Innanzi tutto bisogna tornare ai sensi, riscoprirti, farne sprigionare lampi e intuizioni Il gusto deve sapere esplorare succhiare superfici, nervature e sapori. Siamo ingabbiati nelle abitudini, nella pigrizia, nell'a stinenza. I sensi ci sono diventati ottusi, lenti. Ce li hanno anestetizzati; vivono di immagini e stimoli sempre più esigui e prevedibib, programmati. Nel '92 si tenne a Siena un convegno proprio sui cinque sensi, e lì si lanciò un allarme sgomento, quasi un de profundis. Fra sensi, egemone è la vista, disse Omar Calabrese: è lei, fredda e analitica, che sistema, mette in riga (come si fa nell'esercizio principe della lettura) ogni esperienza. Con l'udito andiamo ancora bene, con il tatto così così, ma odorato e gusto sono allo stremo, rischiano di sparire. Nessuno se ne occupa: non i filosofi, che privilegiano una ragione-cristallo, astratta, monca dei suoi terminali e dei suoi alimenti sensoriali; e non gb scienziati, che pensano solo a quantificare. Così nell'esperienza comune olfatto e gusto risultano ormai sfocati, rifuggono da odori e sapori di carattere, e si adagiano sullo smorto, sull'esangue. «Colpa dell'America», disse il semiologo Paolo Fabbri, tanto per cambiare. E lo studioso Mario Perniola coniò il termine «sensologia», che non vuol dire studio dei sensi, ma rimanda a stampi preconfezionati del sentire, a una sorta di universale e penoso precotto. Ecco, lavorando su questa liberazione dei sensi si perviene al gaudio che Vissani pregusta nella cucina all'orizzonte. Una cucina che lui definisce con una sola parola: contadina. In senso non soltanto storico, di recupero e vicinanza alla tradizione regionale, e prima ancora territoriale, ma in senso addirittura estetico e antropologico: la cucina fa insomma per lui tutt'uno con la natura, non se ne allontana, non la manomette. Vissani da vent'anni s'alza alle 4 ogni mattina e va a fare la spesa ai mercati di Roma, dove cade in trance, passa di estasi in estasi coghendo aromi d'orti, di cespugli, di canab perduti. Una cipolla di Tropea è come una Sirena. E l'odore della lat¬ tuga, «anche se un po' marcia», gb appare trionfante di umori e di pioggia, di vita. Vissani racconta che mantiene il suo ristorante a Civitella del Lago, appena sotto Orvieto, non solo perché da queste parti c'è nato, fra Umbria, Toscana e Lazio («il triangolo delle Bermude gastronomiche»), ma perché qui è più libero, più autentico. Ogni tanto va in mezzo ai campi per sentire gli odori della terra, delle erbe, degli alberi. Quand'era ragazzo scappava il pomeriggio dal celebre Alain Ducasse a Montecarlo o arrivava fino a Parigi da Robuchon per mettersi alla loro tavola, e trovava che tutto era sì buonissimo, ma pure grasso e pesante. «La cucina che volevo fare nasceva da un altro rapporto coi cibi». Un rapporto più rispettoso. Dice che quando palpeggia un fegato, una coscia, un qualunque pezzo di carne, non lo vuole stravolgere con cotture estenuate: sceglie invece cotture sottili, veloci. E così per le verdure: lui tocca quei colori «radiosi», percorre quei gambi e quelle costole sode, e il problema è allora conservare quel tripudio vegetale. Perché mettere il limone sull'insalata? «E' come se ogni foglia mi dicesse: "Ti do la mia freschezza, la mia gioia, e tu mi uccidi?" Bastano poco sale e poco olio». Le verdure sono per lui una «scala musicale». «Hanno nerbo, danno opinione a un piatto». Prevede per loro un grande domani; per carne e pesce no, Vissani storce il naso. La carne da sola gli appare «brutta, volgare». Cambia per lui la grammatica culinaria: la carne ha perso la scettro, non è più il soggetto del periodo culinario, il sostantivo: diventa aggettivo; il nuovo sostantivo è la verdura. La bistecca ai ferri Vissani consiglia di presentarla «a ventaglio», tagliata a fettine disposte ad arco, e di accompagnarla ad esempio con patate lesse in salsa d'aceto, un «aceto vero, di vino rosso»: lo mette in un goccio d'olio con cipolle dolci, bacche di ginepro, una foglia di lauro, una cotica, dragoncello; fa andare sul fuoco per un po', lascia evaporare, aggiunge un mestolo di brodo vegetale, passa il tutto al frullatore ed ecco la «salsa liscia» da versare sulle patate, decorando con prezzemolo. E' tutto. La bistecca è riscattata. L'importante non è comunque la ricetta, ma lo spirito. Conta muoversi in questa direzione di levità, non il singolo piatto, le singole dosi. Sarà allora spontaneo capire che con i fichi o con il melone, che sono dolci, il prosciutto deve entrare in contrasto, e quindi va di gusto forte, dev'essere salato, di montagna, non dolce pure lui. Così per i raviob di zucca: «Basta con il burro e la salvia! Oc¬ corre impreziosire, dare gusto nuovo: mettiamogli dei bei lampacioni, che son cipolle selvatiche molto amare di Puglia, o del sugo d'agnello». E le melanzane alla parmigiana «facciamole non fritte ma alla griglia, e mettiamoci poco burro e niente salsa di pomodoro ma soltanto polpa fresca con basilico, e mozzarella di mucca e non di bufala: con cottura breve in fomo, sentirai che profumo!». Il brodo di verdure è una vera passione: «Io faccio il contrario: l'acqua l'aggiungo dopo. Prima metto in un po' d'olio buono, carote, cipolle, sedano, lauro, un pezzetto di cotenna di maiale, maggiorana, timo e dragoncello e quel che piace, e poi lascio andare finché le verdure sudano. E' qui che verso l'acqua fredda, e schiumo e cuocio per mezz'ora. Un odore fantastico, che dà entusiasmo. Puoi bere il brodo da solo o mettendoci fagioli o lamelle di funghi porcini; oppure lo prendi a sorsi per sposare frittatine di pesce azzurro con prezzemolo e aglio... Prevedo un grande futuro per l'aglio, che va saputo trattare: io lo sbollento due o tre volte, finché perde l'eccesso, l'acuto, e resta l'alone, la poesia». Leggerezza e sapori, dunque, e viva le erbe, le verdure e i legumi. Questo è l'avvenire tra i fornelli. Non una novità assoluta, ma per Vissani conta il cambiamento che si è chiamati a fare, il sapersi riagganciare alle tradizioni del proprio luogo per reinventarle e alleggerirle, il ritrovare una storia, un filo, una «carezza» che ci dia forza. «Mi ricordo le contadine quando si faceva la trebbiatura: si arrotolavano a ciambella un fazzoletto sulla testa e ci mettevano sopra dei cestoni pieni di ogni ben di Dio che portavano agli uomini nei campi. Quei rigatoni al sugo d'oca me li sogno la notte! A che pensiamo noi? Ai cellulari, a Marte? Pensiamo piuttosto alla nostra vita! Io faccio 120 mila chilometri l'anno in giro per l'Italia a caccia di sapori. Ultimamente nelle masserie di Puglia ho mangiato ricotte e mozzarelle e cime di broccoletti cotti lì per lì: ecco una realtà intatta da portare a casa». Vissani è l'aedo dei campi a tavola. Avverte «d'istinto» il Grande Macello, il massacro muto di animali che sta dietro tanta alimentazione. Lui non è certo per una cucina vegetariana, ma tendenzialmente sì, perché «sente» che negli anni prossimi le verdure saranno sempre più corteggiate e apprezzate: non per penitenzialismo mascherato, per dieta punitiva del piacere delle carni, ma semplicemente per omaggio a un piacere diverso. L'edonismo a tavola non può sparire. Vissani non cucina idee, non è un Mondrian dei tegami e delle pentole. Punta a trasferire direttamente in tavola le bontà primarie, naturali, lottando contro gli incubi del sottovuoto, del surgelato e della Tecnica tutta con le sue pratiche togbsapori. Per lui la cucina è un laboratorio, una piccola aula magna di educazione libertaria. E così anche noi non-cuochi faremo fritture aeree «come le ventose nell'acquario di Genova», porteremo uno spaghetto all'orecchio e lo spezzeremo per capire dal suono secco se è fatto di farina giusta, e capiremo che il riso è cotto soltanto muovendolo con una forchetta e vedendolo «volare» nell'acqua che bolle. Claudio Al tarocca Nella nostra alimentazione ci sarà meno carne, mentre le verdure saranno sempre più corteggiate; avremo un rapporto più rispettoso con i cibi e le loro particolarità, leggerezza e sapori naturali contro gli incubi del sottovuoto e dei surgelati «Io faccio 120 mila chilometri l'anno in giro per l'Italia a caccia di aromi Ultimamente nelle masserie pugliesi ho mangiato ricotte e mozzarelle e cime di broccoletti cotti lì per lì: ecco una realtà intatta da portare a casa» isojfl6»A ilBUpBOJOmSlfa qq«oi2t2 il) Mi si s-fc fiKH ;«o;.vfi«iÌ!Ì l'svhq l^lawM itefbss iBoflj il ,;oS lab saoissiilfe d mirti .lisjq ! ODSSteib mt H\éss mìuv. f> ilo!;) tot iJawq GOE hit ombro! saoixaoJtfi ;M .inol ùiq k)£ i#h ovviti kuo1!o jsG'.«k*# lé idojsflsjfii a -ib lofi ish awaites $Ihb Momtia Ir airaKMSfn Ji obcsbiretós trobasr ib s •iviiisido',1 .TOfimwÉsib -ufeh ,icps! 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