Un bel racconto dura poco

Un bel racconto dura poco Da Hector Bianciotti un elogio della forma narrativa breve, sulle orme di Calvino e di Borges Un bel racconto dura poco Mia perfezione non servono troppe parole r*\ON le Lezioni americane, a 'che la morte gli ha impedito I di pronunciare come previI i sto a Harvard, Italo Calvino -Rivoleva «spezzare una lancia in onore delle forme brevi, dello stile che esigono e della densità del loro contenuto, una densità particolare che può manifestarsi senza dubbio in opere a lungo respiro, ma la cui unità di misura resta la pagina isolata. Si tratta di cercare unl'espressione necessaria, unica, concisa, memorabile. Una tale tensione è difficile da mantenere nelle opere di grande ampiezza». Nel 1857, nella prefazione alla sua traduzione delle Nuove storie straordinarie di Edgar Poe, Baudelaire sostenne che il racconto ha, «sul romanzo di vaste proporzioni, l'immenso vantaggio dato dal fatto che la sua brevità aumenta l'intensità dell'effetto. La sua lettura, che può essere fatta tutta d'un fiato, lascia nella mente un ricordo ben più potente di una lettura spezzettata, la "totalità" d'effetto è un vantaggio immenso che può dare a questo genere di composizione una superiorità del tutto particolare, al punto che un racconto troppo corto (è senza dubbio un difetto) è preferibile a un racconto troppo lungo». Novella, racconto, romanzo. La terminologia che cerca di classificare le varie branche della narrativa è sempre stata difficilmente applicabile. I pareri dei teorici divergono infatti, e alcuni di loro, in fin dei conti i più ragionevoli, si rassegnano a evocarli come entità «biologiche», che si sviluppano e trasformano. La confusione non cessa di crescere perché, sempre di più, invadono le librerie opere frammentate, racconti di una magrezza desolante che sfoggiano, sotto il titolo, la loro qualità di romanzi. Sarà perché quello è diventato il genere che garantisce lo statuto di scrittore, .e di conseguenza politologi, consiglieri di presidenti, gazzettieri, psicanalisti, pazienti di psicanalisti, frequentatori di discoteche, non si danno pace sino a che non hanno pubblicato un romanzo, mentre forse potrebbero avere successo se redigessero biografie, saggi, «documenti»? Oppure bisogna spiegare questa proliferazione che scoraggia il lettore discreditando la letteratura con l'effettiva importanza che hanno i grandi premi letterari - riconoscimenti, vendite - i quali vengono assegnati ai romanzi, e solo in maniera subalterna ai saggi, alle biografie, molto raramente ai racconti? Henry James affermava che il racconto non era per nulla apprezzato in Inghilterra, ma, viceversa, era ben visto in America laddove era associato essenzialmente ai nomi di Hawthorne e di Poe. Per lui, però, era stata la Francia la terra della sua grande fioritura - l'originalità di Maupassant era meglio rappresentata, ai suoi occhi, dai «raccontini» che dai romanzi, «la loro brevità estrema, in certi casi, non impediva di essere una collezione di capolavori». Per Balzac, che possedeva il genio e il gusto, il romanzo doveva essere capace di fare la concorrenza allo stato civile. E si potrebbe dire che, a partire da lui, la sostanza propriamente letteraria non è bastata al romanzo, che si è andato impadronendo della storia, della filosofia, della religione, delle scienze: ha mirato a descriverle, a spiegarle, presto a svilupparle per mostrare meglio la realtà, per svelarne meglio la complessità, perché il lettore ha bisogno che gli si mostri ciò che ha visto e vissuto. Arriva poi il giorno in cui il romanzo non vuole più essere specchio della società; aspira a negare ogni rapporto di imitazione tra realtà e realtà letteraria; aspira alla solitudine sovrana della poesia, alla perfezione del sonetto: «Quel che mi sembra bello - esclama Flaubert - è un libro su niente, un libro senza legami esteriori, che stia in piedi da sé per la forza interna del suo stile... come la terra senza essere sostenuta si regge nell'aria». Flaubert non realizzò quel sogno impossibile; ma Proust, Joyce, Virginia Woolf hanno - ognuno a suo modo - eluso l'aspettativa della conclusione, e sono riusciti a trattenere il lettore con la superba utilizzazione di ciò che gli scrittori che ignorano le leggi mobili e segrete del romanzo chiamano digressioni. (Ricordate l'anuniratrice di Renan che aveva fretta di terminare la lettura della Vita di Gesù per sapere come andava a finire?). La perfezione non è affare del romanzo, che può essere a tratti barboso, e ciononostante restare grandioso. All'opposto, il racconto esige la perfezione per esistere. «E' un po' come un calembour - diceva Borges - o funziona o non esiste». Non avendo scritto, in fatto di narrativa, altro che racconti, e preferendoli negli altri, ammetteva che se avesse dovuto fare un elenco di libri memorabili avrebbe pensato prima di tutto a Don Chisciotte, a Bouvard e Pécuchet, a Erewkon o Dall'altra parte delle montagne di Samuel Butler, e poi ancora ad altri romanzi; aveva riletto più volte Delitto e castigo, ma la sua memoria aveva ritenuto solo tre o quattro scene. H che, cosa non sorprendente, ci induce a osare la seguente ipotesi: ogni romanzo riuscito potrebbe essere diviso in racconti. Viene da pensare a quelle stelle dei fisici, di cui la letteratura si impadronì un quarto di secolo fa, e che Severo Sarduy celebrò in un libro poetico e divertente, Big Bang (Fata Morgana, 1973): la Gigante rossa, che sarebbe senza sosta in espansione e destinata a esplodere: e la Nana bianca, che rimpicciolirebbe, ma la cui materia diventerebbe così densa al centro «che una semplice scatola di fiammiferi vi peserebbe parecchie tonnellate». Chi ci vieta di paragonare il romanzo alla Gigante rossa e il racconto alla Nana bianca, condensato al massimo? Tentare una classificazione rigorosa dei generi letterari è un'impresa vana. Basta ricordare che «novel» in inglese, e «novelas in spagnolo, designano il romanzo; che la parola «novella» è stata sostituita, in italiano, da «racconto», consacrato dall'uso. In russo, i vari termini - romanzo, novella, racconto - sono abitualmente utilizzati, mentre nella vasta letteratura giapponese pare ce ne sia uno solo e che, curiosamente, si avvicinerebbe a «short story». Del resto, poiché la parola «novella» non ha equivalente in spagnolo - e «racconto» vi designa ogni narrazione breve -, Miguel de Unamuno avrebbe proposto la denominazione «novelata», cosa cui Borges avrebbe risposto che era meglio sopprimere il genere piuttosto che ridicolizzarlo con ima parola che sta a metà strada tra il derisorio e il burlesco. Certo, «novelata» è una parola che, anche foneticamente, fa ridere, ma va preso in considerazione il distinguo implicito che contiene la proposta di Unamuno: lui provava realmente la sensazione di una differenza - una differenza alla lettera «innominabile» - tra il racconto e la novella. Secondo Italo Calvino, la narrazione orale, nella tradizione popolare - quella del racconto, più antica della letteratura - obbedisce a criteri funzionali: trascura i dettagli inutili, ma insiste sulle ripetizioni; così come l'arte di Sheherazade, che le permette ogni notte di salvarsi la testa, «consiste nel saper concatenare le storie e interrompersi al momento giusto». Il racconto è «raccontabile», oralmente e anche per iscritto (Joubert insinua che «i racconti che sono passati per le veglie intorno al fuoco sono migliori»), nella misura in cui l'attesa della conclusione cresce a mano a mano che la narrazione avanza. All'opposto, il novellista dà l'impressione di sapere sul suo soggetto più di quanto non dica; può anche fare dell'imprecisione calcolata un suo atout. Tra coloro che hanno rinunciato «alle sorprese che pretende di riservare una fine imprevista» e hanno preferito «far nascere un'attesa piuttosto che uno stupore» come diceva Borges: Cechov, Kipling, Pirandello, Svevo, Joyce, Mansfield, Salinger, Jouhandeau. La varietà di ritmi, un'espressione o un aggettivo particolari possono recuperare il segreto che è sfuggito a ogni ricerca e rendere indelebile il breve incontro che propone la novella; e in effetti, a differenza del racconto, è impossibile ridurla a una qualsiasi forma di riassunto. Hector Bianciotti Copyright «Le Monde» e per l'Italia «La Stampa» Può essere narrato oralmente, trascura i dettagli e insiste sulle ripetizioni Ma non deve mai essere noioso // romanzo invece riesce a raggiungere la grandezza anche se è a tratti barboso Un genere coltivato da molti grandi come Hawthorne e Poe sce za oso Un genere coltivato da molti grandi come Hawthorne e Poe «Il racconto è come un calembour: o funziona o non esiste», diceva Borges (nella foto a sinistra); qui accanto Henry James

Luoghi citati: America, Francia, Inghilterra, Italia