Il trasloco dell'Avvocato

7 Il trasloco dell'Avvocato «Al Lingotto, come il primo giorno di scuola» In visita ai nuovi locali della Fiat con il presidente onorario dopo il trasferimento da corso Marconi RITORNO ALLE ORIGINI STORINO EMBRA un po' come il primo giorno di scuola, non trova?». La vecchia Croma metallizzata dell'Avvocato è messa di traverso lì sotto in via Nizza tra le assi e i nastri segnalatori degli ultimi lavori in corso, e lui, Giovanni Agnelli, presidente onorario della Fiat, su al quarto piano sorride di questo trasloco al Lingotto capace di trascinarlo indietro nel tempo. «Vedo gli altri aggirarsi con timidezza tra questi corridoi ristrutturati nel loro carattere austero, concreto, che fa molto industria d'inizio secolo, stile Schneider Krupp. Per me invece è un po' come tornare a casa, in un posto che conosco bene, pieno di ricordi e dilsignificati». Sarà per questo che Agnelli era già venuto ad aggirarsi qui tra gli scatoloni perfino a Ferragosto, insieme a Romiti e Cantarella, decretando così, dopo quarantatre annj, il distacco del vertice Fiat dall'ottavo piano di corso Marconi, sede imponente ma anonima rispetto a questa del Lingotto. Dove, sia detto per inciso, la sala dedicata alle conferenze stampa verrà intitolata a Carlo Casalegno, il vicedirettore de La Stampa assassinato vent'anni fa dalle Brigate rosse. Nell'attesa che il lavoro ricominci a pieno ritmo, è lecito chiedersi se il trasloco coinciderà con una nuova stagione della più grande industria italiana, ormai prossima ai suoi cent'anni. Quanti uffici ha avuto prima di questo, Avvocato? «Pochi, non creda. Il primo fu una specie di roof-garden sul tetto della Villar Perosa, proprio in questa stessa via Nizza che è poi la strada della vecchia industria torinese, ai tempi del mio primo incarico in Riv». Niente Lingotto, dunque? «Al Lingotto, il primo grande stabilimento automobilistico Fiat, nato nel '23 e dunque di due anni più giovane di me, io scoprivo la fabbrica proprio come Charlie Chaplin in Tempi Moderni aveva descritto il fordismo. Venivo a trovare mio nonno nell'ufficio del secondo piano con i fili telefonici che calavano dal soffitto e le pareti tappezzate di mappe geografiche, perché la Fiat era già in mezzo mondo. L'ultima volta lo vidi qui nel giugno del '42, ero appena tornato dalla Russia. Come al solito accanto a lui c'era Valletta che, si figuri, era in Fiat fin dal '21, il mio anno di nascita. Finita la guerra li ritrovai a Mirafiori, dove avrei avuto il mio secondo ufficio: quello appartenuto al nonno». F. il terzo è quello di corso Marconi che ha lasciato per venire qui. «Esattamente. Nel dopoguerra stavamo tutti a Mirafiori, e in corso Marconi ci saremmo andati nel '54. Ricordo bene il primo campanello d'allarme che ci indusse ad accelerare il trasloco: l'attentato a Togliatti, luglio '48, in seguito a cui ci fu un'occupazione degli stabilimenti. E se ci portano via tutte le carte? All'epoca c'erano ancora molte armi in giro... Che strano, pensi che conservo ancora una foto con Togliatti allo stadio nell'aprile di quell'anno. E' un periodo che Aldo Cazzullo descrive bene nel suo libro I ragazzi di via Po. Fatto sta che da Mirafiori ce ne andammo anche per ragioni di sicurezza». Quali ragioni vi portano invece al Lingotto? «Vede, questo posto ce l'avevamo, neanche le bombe erano riuscite a buttarlo giù, costava soldi. Ne è nata un'ambizione anche mia personale: spostare il baricentro di Torino in questa direzione. Dopo le mostrerò la città da lassù dove atterra l'elicottero, di fianco alla cupola di cristallo. Noterà come da Porta Nuova fin qui vi sia tutta un'area di ferrovia sprecata. Arretrando la stazione se ne potrebbe fare un parco o quel che si vuole, ma intanto sono certo che portando qui il lavoro, intorno al lavoro ricomincerà la vita». Avvocato Agnelli, mi faccia fare un passo indietro nella sua storia. Lei ha raccontato che nel 1946, dopo la morte di suo nonno, fu sua la decisione di assegnare la presidenza della Fiat a Vittorio Valletta. «E' esatto, andò proprio così. Valletta mi disse: "I casi sono due, o il presidente lo fa lei, o lo faccio io". E io gli chiesi di as¬ sumere quell'incarico». Ma all'epoca lei aveva solo 24 anni... «Ventiquattro o venticinque, non ricordo bene. Ma come per tutta la mia generazione che aveva vissuto esperienze come la guerra, erano anni che contavano almeno il doppio». E, mi scusi, lei era in grado di decidere da solo il destino della più grande industria privata? «All'epoca funzionava così, a nessun altro spettava tale decisione che peraltro, ne converrà, fu saggia. Aveva un equilibrio straordinario, Valletta. Se per caso gli apparivo troppo soddisfatto dei risultati conseguiti, lui mi ammoniva: "Avvocato, si ricordi sempre che il nostro fatturato è pari agli utili della General Motors". La sua presidenza durò vent'anni e ricordo che anche lui visse gli ultimi due o tre nell'incertezza. Diceva: "Lascio alla prossima assemblea". Ma poi gli dispiaceva, e rinviava». Fra poco saranno cent'anni che la famiglia Agnelli fabbrica automobili. Per quanto tempo ancora tale prodotto potrà restare centrale nelle vostre attività? «Non posso risponderle da finanziere perché io sono una persona vissuta in pieno dentro questa storia, dentro questi luoghi. Non posso astrarmene misurando solo le opportunità degli investimenti. Vede, dieci anni fa lo sapevamo anche noi, come tutti, che i telefoni avrebbero avuto uno sviluppo ben maggiore dell'auto. Ma quella dell'auto è la nostra cultura e la nostra passione, qui abbiamo la grande professio- nalità degli uomini. Il nostro mestiere era e resta questo». Nobili parole, ma anche Tifi ha i suoi finanzieri che fanno bene i conti. Si sente parlare ad esempio di un interessamento alla Stet... «Ha ragione, sono con noi finanzieri di grande valore. Ma allora mettiamola così: per la mia generazione è inconcepibile. Noi pensiamo al nostro lavoro che è fare automobili, consapevoli che ciò significa oggi cercare nuovi possibili punti di sviluppo». Dove sono questi punti di sviluppo? «Europa e America sono ormai mercati saturi e a basso tenore di crescita. Lo sviluppo è in India, Cina, nell'Est europeo, in Russia, oltre che nell'America latina dove siamo i primi. Questa è una strategia che l'azienda ha ben chiara. Sono i nuovi mercati nei quali bisogna investire». Una Fiat sempre meno italiana? «No. Già oggi su 250 mila dipendenti ne abbiamo 100 mila all'estero. Ma non pensiamo affatto a diminuire la nostra presenza in Italia. La globalizzazione impone di lavorare sempre di più sui mercati esteri, ma senza penalizzare i nostri stabilimenti nazionali. Il futuro di Torino - intorno a questa nuova sede del Lingotto - sarà, pur conservando il suo ruolo produttivo, di roccaforte intellettuale della progettazio- ijjBp | :-#,-vi ne automobilistica. E' giusto, così si mantiene la sovranità». Questo cambiamento le appare già in corso? «Indubbiamente sì. Non c'è paragone possibile, perfino nell'aspetto fisico, tra gli operai che riempivano le officine del vecchio Lingotto e chi lavora in fabbrica oggi. Sembrano due civiltà diverse. Oggi non esiste più il "blue-collar". Chi distingue un operaio da un impiegato? Ricordo una recente grande sfilata di metalmeccanici nella capitale. Fu una sorpresa. I manifestanti diedero l'impressione di truppe scelte». Avvocato, cosa si porta qui dai suoi tre vecchi uffici? «Il mobilio e la pianta di ficus sono gli stessi, anche se la stanza è meno ampia di quella che avevo in corso Marconi». Ma non ha un oggetto che le sia particolarmente caro, un portafortuna che la segue dall'inizio? «Direi di no, non sono superstizioso e non ho questo tipo di legame con gli oggetti. Aspetto che mi appendano alla parete una bella tela a soggetto automobilistico di Dubuffet. Credo gliela avesse prima commissionata poi disdetta la Renault, e lui - forse indispettito - ha pensato bene di regalarmela». Vedo anche uno strano busto in pezzi meccanici che combina assieme il vecchio copricapo dei carabinieri e il marchio Fiat, due simboli cui è molto legato... «L'ha fatta uno scultore siciliano, Laganà. Ma per la verità credo che lui più che pensare ai carabinieri attribuisse al cappello un significato napoleonico». Avvocato, non si può fare a meno di pensarci. Una stanza di questa sede, così antica e così nuova, tocca a suo nipote Giovanni? «E' il mio grande desiderio. Che il terzo Giovanni Agnelli si ristabilisca nella consapevolezza che lo stiamo aspettando, e ci raggiunga presto qui al Lingotto». Gad Lerner «Qui venivo a trovare mio nonno: c'erano i fili telefonici che calavano dal soffitto e le pareti tappezzate di mappe geografiche» «Europa e America sono mercati ormai saturi Lo sviluppo è in Cina India e Est Europa» «Ora desidero che mio nipote Giovanni Alberto venga presto a lavorare con noi» .■:<tì>J\«t,::-:-.«v:*W* 10$ Qui accanto la cupola del Nuovo Lingotto progettata da Renzo Piano. Venne inaugurata lo scorso anno per il summit dei capi di Stato e di governo dell'Unione Europea A destra l'ingresso interno alla palazzina uffici nonno: e pareti afiche» grande il senatore nni Agnelli. À sinistrai sso del Lingotto e nell'America mo i primi. Quegia che l'aziena. Sono i nuovi i bisogna invepre meno itau 250 mila diiamo 100 mila non pensiamo uire la nostra ia. La globalize di lavorare ui mercati estenalizzare i noi nazionali. Il no - intorno a de del Lingotto ervando il suo o, di roccaforte la progettazio- «sza«zgcum FotGiol'ing Foto grande il senatore Giovanni Agnelli. À sinistrai l'ingresso del Lingotto