Il lucido cronista della danza macabra

A Zurigo una grande rassegna rievoca l'opera del pittore tedesco Christian Schad A Zurigo una grande rassegna rievoca l'opera del pittore tedesco Christian Schad Il lucido cronista della danza macabra Un realismo che cela inquietudini EZURIGO IPINTO a Roma nel 1925, il Ritratto del figlio Nikolaus di un anno, di Christian Schad, ci contempla e ci turba con la sua aura da piccolo imperatore o piccolo Bhudda fra la memoria di Rousseau il Doganiere e la realtà magica, che lo accomuna alla testa del suo orsetto in primo piano e alla misteriosa testa di bambola bionda déco sul fondo che addirittura evoca la pittura fantastica degli esordii di Antonietta Raphael Mafai. Nel salone in equilibrio fra Secessione e Déco del Kunsthaus che, provvisoriamente rimossi i Fussli e gli Hodler, ospita fino al 9 novembre la grande mostra di Christian Schad ( 1884-1982), il dottor Nikolaus Schad sorride e tiene a sottolinearmi, in perfetto italiano, che il padre non sopportava la definizione della propria pittura nel contesto della cosiddetta «Neue Sachlichkeit» o «Nuova Oggettività», il grande fenomeno tedesco degli Anni 20, alle cui mostre aveva partecipato a Berlino nel 1927 e ad Amsterdam nel 1929. L'orgoglio individualistico di Schad, fino ai limiti da lui riconosciuti del narcisismo, rifiutava l'idea della poetica di gruppo, ma soprattutto l'inquietudine umana e psicologica del figlio di giudice e trisnipote per via materna di un tipico pittore protoromantico come Fohr non accettava il termine di «oggettività». Esso era perfettamente adatto alla dura, rigida, espressionistica meccanica pittorica dei Dix, dei Mense, dei Davringhausen, dei Raederscheidt ma non al senso, appunto inquieto e di profondità psichica, a cui il pittore rimandava come versante oscuro dietro alla lucidità suprema della luce fredda, analitica, da «padellone» cinematografico, che investe le sue figure umane troppo umane. Rispetto al fondamento «antico-tedesco» che il primo Espressionismo della «Briicke» trasmetteva ai suoi compagni di strada, il suo «ritorno all'ordine» dopo la ventata cubofuturista e dadaista degli anni 1910 scelse il modello italiano rinascimentale, caro sia a De Chirico che all'originario Novecento milanese, ma con un sapore e un sentore di casa in senso addirittura biologico, rievocante l'amor romantico d'Italia dei Nazareni del primo '800 e del grande protoromantico nordico Runge. Il suo rapporto con i luoghi e le culture di questi Anni 20 fra la passata e le future tragedie d'Europa è complesso e inquieto, errante e contraddittorio, fra Roma e Napoli e Vienna, Parigi e Berlino, fra analogie palpabili con i Dudreville, gli Op¬ pi, i Funi - ma anche, a Parigi, con Fuijta e il Derain dei primi Anni 20 - e bisturi affondati nella Germania culturalmente vitalissima, eversiva ma oscuramente «malata», altrettanto affilati nella loro eleganza mondana quanto quelli rivoluzionari di Grosz e di Dix. Tutto all'opposto dell'oggettività, è significativo il rapporto che il pittore istituisce fra le persone ritrattate e gli ambienti di sfondo, nei loro peculiari o diversi-«caratteri» e i loro rimandi alla cultura visiva contemporanea. Esemplare da questo punto di vista la vicenda dei ritratti che hanno per soggetto la prima moglie italiana, Marcella Arcangeli. Il primo la trasfor¬ ma in una immagine che traduce in termini novecenteschi italiani l'opulenza delle «pompeiane» di Picasso, con sullo sfondo una periferia industriale napolenata alla Carrà o alla Guidi. Due anni dopo, nel 1926, con un'amata orchidea al petto e accarezzando un ermetico gatto nero in primo piano, essa è diventata una raffinata parigina, su uno sfondo da Montmartre alla Utrillo. Quando la scena si sposta a Vienna o Berlino in una complessa società fra gente di scienza e di lettere, di finanza e di dolce vita, accomunata da un frenetico non conformismo, il ritratto è circondato da altre sezioni di umanità, corpi senza testa, diventa un fotogramma di «Kam- merspiel» di Pabst o di Murnau. Esteriormente, Schad ne è il cronista lucido, impassibile, disponibile su una incredibile gamma che corre dal Ritratto di papa Pio XI alle Due ragazze che si masturbano del 1928; interiormente egli è oscuramente partecipe e conscio della discesa verso gli inferi nazisti, dipingendo una sorta di danza macabra, conferendo la stessa «patetica» dignità alla nobiltà profuga e assai dubbia della Baronessa Vera Wassilka e del Conte St. Genois d'Anneaucourt e ai fenomeni da baraccone Agosta, l'uomo uccello eRasha, la colomba nera. La profonda corda esistenziale che vibra nel consapevole e «patetico» distacco dalla ma- teria trattata è ancora più evidente nella stupenda sintesi quasi giapponese dei fogli grafici, lungo la linea più francesizzante che tedesca che corre da Stenlen, Bonnard, Vuillard per approdare al monacense «Simplicissimus». Alle spalle di tutto questo, lo stesso distacco, nascente da una precocissima e lucida padronanza dello strumento linguistico, caratterizza la fase rivoluzionaria degli Anni 10: dalla cristallizzazione sfaccettata e monocromatica cùbofuturista del 1916, indifferentemente applicata alla Deposizione e alla veduta urbana, e dalla ventata espressionista del 1918, in entrambi i casi mediata dalla Vienna del troppo misconosciuto Mopp (Oppenhaimer) e di Kokoschka, al gusto disimpegnato e ludico degli assemblaggi dadaisti policromi del 1920. Quanto alla sperimentazione delle «Schadografie», «fotografie senza macchina» ottenute intercettando la luce con oggetti posti sulla carta sensibile, i due gruppi del 1919 - eccezionalmente quasi al completo a Zurigo - e del periodo 1960-77 tracciano la parabola dell'artista sopravvissuto a se stesso nel secondo dopoguerra, fino alla riscoperta, di cui va in gran parte il merito a Emilio Bertonati. Il suo Ritratto, del 1972, conclude la mostra. Gli oggetti dadaisti, piccoli, tecnicamente elementari con il loro anticipo su Man Ray e Moholy Nagy, con i titoli manoscritti sul foglio di supporto, conservano intatto il loro fascino pionieristico fra Ernst e un cubismo ectoplasmico; quelli degli Anni 60 e 70 sono raffinatissimi esercizi sui datati modelli surrealisti-Bauhaus degli Anni 20. Marco Rosei Esposte anche le sue eccezionali «fotografie senza macchina» «Graf St. Genois d'Anneaucourt» e a sinistra «Halbakt» di Christian Schad