STAINO la rivincita del campanile

come cambiera' la nostra vita. Parla il papà di Bobo: un vizio italiano che vorrei immortale? Il provincialismo come cambiera' la nostra vita. Parla il papà di Bobo: un vizio italiano che vorrei immortale? Il provincialismo STAINO ^rivtocita del campanile FIRENZE DAL NOSTRO INVIATO Bobo sembra perplesso. Guarda oltre il rettangolo stretto della porta-finestra, dentro la macchia grigioverde degli ulivi e dei cipressi che s'inerpica fitta lungo il fianco della collina, e s'illumina d'assenza. Bobo, questo Bobo, non ha pensieri e non può averne. Sta tutto nell'evidenza del naso a peperone, degli occhialoni cerchiati di nero, della barba incolta sul faccione rubizzo. Quel rosso chiazzato... come se qualcuno l'avesse costretto ad alzare il gomito con gli amici. Ma Bobo forse è astemio. Non sappiamo neppure se abbia amici, o se li abbia avuti. Bobo è un pensiero, Bobo è un malumore, Sistemato su una mensola a metà muro, replica il destino dei padri della patria: è diventato un busto. Non c'è più religione, direbbe il diavolo. Seduto sotto di lui, su una poltroncina di tela nella penombra dello studio, suo padre lo guarda e dice: «Me l'hanno regalato i carristi di Viareggio». Il padre di Bobo è Sergio Staino il satirico. I carristi sono quei maestri della cartapesta che aspettano il Carnevale per liberare, distillandolo, il vetriolo della loro eversione. Che tra loro e Staino ci sia un feeling può sembrare la cosa più naturale del mondo. Un po' meno naturale, un po' meno atteso, oltre ai tavoli per disegnare e al fax in azione quasi perpetua, è il resto dalla stanza. Staino la chiama <da stanza dei miei giochi». E non esagera. Aeroplanini panciuti, gingilli misteriosi, un busto di Lenin dorato, un «Teleratto», il premio tv rivale del Telegatto anche nel nome,, conquistato con il Cielito lindo di Raitre. Ma il reperto più singolare, messo sotto vetro e sigillato da una severa cornice, è una copertina del settimanale comunista Vie nuove. Il numero è degli Anni Cinquanta, è dedicato a un compleanno di Stalin, e il faccione del dittatore rosso appare, come al solito, di profilo. Sotto lo stesso vetro è conservata anche la quarta di copertina, ma il genere è un altro: c'è un disegno di Verdini, campione del cosiddetto «fumetto proletario», corredato da una poesia di Rodari. «In queste due cose ci sono le mie radici; servono a non dimenticare». Staino sorride, e socchiude gli occhi. Siamo saliti su queste colline sopra Scandicci per parlare con lui di vizi. Considerandolo un esperto della materia, e ispirati dalla cosiddetta «globalizzazione» alla quale sembra aprirsi con trafelata urgenza il nostro futuro, siamo saliti a chiedergli quale sia il vizio italiano che egli vorrebbe immortale. Questa storia dell'economia globale (e quindi delle idee globali), questa prospettiva del mondo ridotto a una palla piallata da interessi a loro volta globali, ha un che di sinistro. Salvare un vizio è come mettere da parte un'unghia di umanità, come far pulsare nel nostro buio la lucciola deU'individualità. Dunque, a quale vizio dovremo appigliarci? Staino finge di tormentarsi la barba, divaga, parla del lattaio che tarda a passare, di Lamberto Dini che, venendo ad abitare poco più su, gli ha tolto la primogenitura del luogo e la pace: le visite del ministro sono rumorose, affollate di poliziotti e di fotografi, un tormento. Sì, va bene, anzi va male (per Staino), ma il vizio? La risposta è imprevedibile: «Il provincialismo». In un istante i peccati capitali sono umiliati, tutti e sette in blocco. Ignorati i grandi vizi dell'uomo e della storia, quelli intrisi di cattiveria e di sangue indurito. Resta a galleggiare questo vizietto da parvenus, questo involucro di vitelloni sbiaditi, questo esclamativo geografico scagliato come un coltello contro uno stile di vita. Il provincialismo, allora? «Proprio quello. In questi ultimi anni lo si è criminalizzato, invece mi sembra una delle caratteristiche forti che aitiamo». Staino capisce che, a questo punto, deve spiegarsi. Comincia: «Ho una sensazione. L'Italia è ancora un Paese dove persone eccezionali - scrittori, artisti - possono vivere lontane dalla metropoli». Dall'enunciato passa alla dimostrazione concreta: «Paolo Conte non ha mai lasciato Asti, eppure ha detto cose importanti e ha conquistato l'estero. Altan vive a Aquileia, Benigni a Cesena, Salvatores a Lucca. Se uno va in Francia per conoscere una persona che gli sta a cuore, un artista, raramente può allontanarsi da Parigi. L'Italia, invece, mantiene questa diffusione di creatività a dimensione provinciale». La causa? «Il campanilismo che ci portiamo dentro fin dal Medioevo». Attenzione, avverte Staino, non bisogna confondere questo provincialismo con la difesa dell'orticello, che «porta al razzismo e magari alla Lega». Aggiunge che, quando il provincialismo coincide con «la sensazione di trovarsi al centro del mondo, di appartenere al mondo, diventa positivo e persino eversivo». Ricorda i suoi anni da ragazzo, quando certi avvenimenti e movimenti mondiali sapevano galvanizzare i paesini italiani. «C'e¬ ra il presidente americano Lyndon Johnson con le sue minacce di bombardare da qualche parte. E noi scendevamo in piazza a protestare. Uno poteva dire: ma chi se ne frega, mica ci tocca. Invece, no. E questo era bello. Un po' come è avvenuto per O'Dell. Prova un po' a fare la stessa cosa nella provincia americana. Lì davvero sono paesini chiusi, lì davvero se ne fregano». La grande America più provinciale della piccola Italia? «A me l'idea di uno che si sente il centro del mondo mi commuove. E' meraviglioso». Racconta di aver provato a vivere a Roma, ci stava bene, ci si divertiva, clima buono, la gente lo accoglieva con grande allegria. Ma poi sentì un crack. «Dopo due o tre anni, mi son reso conto che stava morendo la mia poetica, stava morendo il mio personaggio. Mi mettevo davanti al foglio, ma sentivo che mi veniva a mancare quel tipo di riflessione popolare che ha fatto il successo di Bobo». Torna a citare Paolo Conte. Con lui litigò. Quando gli disse che le sue canzoni erano frutto di provincialismo rischiò la rottura. «Però è proprio così. Lui parte dalle piccole immagini che si colgono nella sua provincia e arriva a collegarle col jazz, con Kurt Weill. Bartali, la Topolino non sono miti metropolitani, però sanno diventare miti universali». Dunque il futuro... «Sarà una fuga nel deserto, ma con modem e computer. Io le mie vignette potrei farle ovunque. Mi basta una piccola strumentazione. Quindi in futuro ci sarà il vecchio cortile che si sposa con il mondo, Pavese che convive con guerre stellari». Quando? Quale Capo di Buona Speranza dovremo doppiare, prima di arrivare a tanto? «Forse ci siamo già. Dove arrivano luce e telefono arriva tutto». Il futuro di Staino è lo stesso di Altan: quello di due provinciali che commentano il mondo. «Ma siamo diversi: io ho bisogno di incontrare le persone. Altan, no. Lui segue gli avvenimenti e li sintetizza in massime filosofiche. Io aspetto il lattaio, lui esce la mattina in bicicletta e, quando torna, si mette al lavoro. Non ci vediamo, non ci parliamo. Se abbiamo bisogno di comunicare, ci scriviamo via computer». Arriva un dubbio. Se il futuro è centrifugo, chi resterà nelle grandi città? E con che scopo? «Le grandi città si stanno già ridimensionando. Qui siamo invasi dai milanesi. Ma non so quale sarà l'assetto urbanistico futuro». Dice che Frank Lloyd Wright, l'inventore delle Prairìe Houses e il profeta della città-regione dispersa nel territorio, ha sbagliato tutto: «Wright prevedeva una società in movimento su caravan, non pensava all'elettronica. Il futuro non sarà come pensava lui, il futuro andrà alla rovescia». Balena un'immagine assurda: la visione di città quasi spopolate e un'umanità simile a quella di Fahrenheit 451. In quel romanzo Ray Bradbury immaginava che tutti i libri fossero stati distrutti, bruciati da pompieri incendiari. Ma sopravvivevano gli uomini-libro: ciascuno di loro aveva imparato a memoria un testo, che tramandava ai giovani. Avremo gli uomini-città, che racconteranno alle nuove generazioni ciò che furono Roma, Milano, Napoli? «Di sicuro continueremo a raccontare, raccontare è un'operazione bella. Quando mi chiedono che cosa faccio, sarei tentato di rispondere il raccontatore di storie. Anche questo ci viene dal passato, dai cantastorie. L'ultimo ventennio è stato ricchissimo di tecnologia. E quando si dice che è mancato il dialogo si dice una verità profonda. Me ne accorgo quando vado a parlare nelle scuole: comincio e sento intorno a me un silenzio e un'attenzione meravigliosi. Mi pare di essere il pifferaio magico. Se penso che da qui, da casa mia, posso collegarmi con un paesino cinese e godermi il video di un ragazzo che mi racconta il suo paese, è una storia bellissima: in quel momento io e lui siamo due provinciali felici, che hanno imparato a scavalcare il mondo e si raccontano». Staino tace e il busto di Bobo, nella sua fissità, sembra allarmato. E' stata evocata l'immagine di un mondo ristretto, ma felice. E se davvero Bobo fosse preoccupato? Se temesse la disoccupazione? Da quel che ha sentito, dalle ipotesi che sono state fatte, non avrebbe più nessuno contro cui inveire, nessuno da accusare delle malefatte più involute e nefaste. Grazie a un vizio piccolo e italiano, la società diventerebbe quasi paradisiaca, e per lui sarebbe la fine. «Eh, sì - dice suo padre -, se la situazione è tranquilla, il giornalismo di denuncia perderebbe valore e significato. Ma l'eventualità mi sembra lontana». Staino alza gli occhi, come se volesse rassicurare quel suo figliolone ispido e nasuto. Gli dice: «Il giorno che non avrà più bisogno della satira è più lontano del sole dell'avvenire». Osvaldo Guerrieri «E'possibile sentirsi al centro del mondo anche stando lontano dalla città» «Con il computer e un modem le mie vignette posso farle ovunque» «Paolo Conte non ha mai lasciato Asti, Altan vive a Aquileia, Benigni a Cesena» il liii) IMlfcti) «CI iiftvHiS OCtiiJtliiV i :km) bis iinuo MS hi; ambio' uHÙHtsfeiM.ii'iòikqi-od iibsvind ^du'Jo BiT .0KK9T lob innjsn'sjfil sii: ■ih J(:i? rìr, «ioìmìrk yhb tmaum 1? >at?inswjra -I càgs.kt!>n.i> si «fan<!i«*tetti!hiq<8& ■ubi" ,iqì«6i Lq^!6<*)%Tfc!itf3b l*h *Midablb%biwro*riaq t! ite» ■M Ib fiWV-i S~*!<£ nf'jOi-ìi-Jùu li «fo Tmv.n Uk Cifoli* flilMtiK .:.:!«/t iteci MS 1 ibi tìSIUOI fi "liliril;.] (sjfp atóbllKl (mal iiiras (ii e cui wciobj bui'. joailim Cit mù.:!«( © ib nm'iaii SHAKI* JkBSi LODinr ■ib ;?so ,iHloisà?lri! *9*i§b *■£ •8W5 ìii-j i!:j.')iìr. 4>ÌK> 'iXC:!'?' fi »-!vj)" ed ah jsttà» itons ittaup... r-s tei sri minm) o»n«J s .}iH yj? r-i> tei lù ?fe«) ffKon» sia sii .hsfif. bang «llffitMb ii':iÌ:i!::8UjS Djb UW :iì ìisfi c ao3 akftri) 'A cssccrO $ii;)«>te b Si wk[ ;•■><>! ii niSobh ci « jiS-ksìwJ s«.i ; ■iffiCi .{...008 •• nbujbjsisìitiiii!] otos? 0 33^g°3a r.-.rnii ir <j.-t-. sii-. \! &1 Ojiiljtli onr;i;(i ili: ib iibi sii M'ipjanq ifccsaòbciM isb »us tinsi & •*h,J >'>'«' oto» .big* me sbcsBig jifbib «xm'l odo slciivfios s l> Sergio Staino con il suo Bobo. Sopra Altan In basso a sinistra Paolo Conte e a destra Roberto Benigni