CARON: IN MARE A IMPARARE LA VITA

IL CONSIGLIO IL CONSIGLIO di Dario Voltolini SO che questo consiglio di lettura può funzionare: lo ha fatto con me. Un giorno incontrai uno scrittore che non conoscevo di persona. Era una situazione collettiva, frasi accennate, frequenti interruzioni, conversazione distratta, tavola imbandita. Ciononostante lui riuscì a infilare un nome, un titolo e un commento entusiasta. Tempo dopo seguii quel suo consiglio di lettura, incontrando così una scrittrice eccellente e importante. Il nome è Carson McCullers ( 1917-1967). il titolo è La ballata del coffe triste (TeaDue, 1997, L. 14.000). Dunque non mi resta che trasmettere a mia volta il consiglio. Oltre al romanzo che dà il titolo al libro, in questo volume ci sono sei racconti molto belli. Nessuna nota editoriale segnala la loro presenza: un fatto strano, persino simpatico. Probabilmente nel romanzo o in uno dei racconti troverete un personaggio che vi convincerà a cercare in librerìa gli altri titoli di Carson McCullers, forse Miss Amelia o II Cugino Lymon, forse Martin Meadows o Madame Zilemsky. E se non sarà un personaggio a farlo, sarà una situazione. O una descrizione. O un'osservazione a metà di una frase. O, sicuramente, la voce calda, coraggiosa, forte e delicata della narratrice. a, ELLA primavera del 1974, in una trattoria di Orte, dove s'era fatto restaurare un piccolo «castello di vedetta» Pier Paolo Pasolini ebbe parole di fremente sdegno verso la crescente accettazione dell'omosessualità da parte dei (cosiddetti) normali: «E' come se ci pugnalassero alle spalle» disse tra l'altro. Era presente il cugino Nico Naldini, che certo ricorda. Ho ripensato a quella frase, che mi aveva lasciato attonito, nel rileggere, nella traduzione d'ammirevole finezza di Giorgio Pinotti, Il funambolo e altri scritti di Jean Genet. Il libro potrebbe avere un sottotitolo neutrale, e certo per il lettore poco coivolgente, di Scritti sull'arte e sul teatro. Raggruppa, infatti, dieci diversi testi, da situarsi tra il 1948 e il 1967 (ricordo, per inciso, che Genet è morto nel 1986, all'età di settantasei anni). Quattro sono decisamente d'argomento teatrale: uno, il più recente, nato dalle sollecitazioni di Philippe Sollers e apparso sulla sua rivista «Tel Quel», è un magnifico saggio teorico sul carattere di cerimonia funebre, estrema, del teatro («Il teatro sorgerà il più possibile vicino all'ombra tutelare del luogo dove si custodiscono i morti...»), i restanti tre sono le martellanti lettere o postille per e alle messinscena dei proprii capolavori da parte del regista prediletto, Roger Blin: parliamo, naturalmente, de I paraventi, Le serve, Il balcone. Tre, invece, ci trasportano nel mondo dell'arte figurativa, moderna e contemporanea. Dal 1948 al 1955 Genet, che in un cnjadriennio aveva pubblicato quattro romanzi e due drammi, «conosce infatti una lunga, tormentosa fase di vuoto creativo», per citare il curatore. Nel 1953, durante un viaggio ad Amsterdam, scopre Rembrandt: mentre medita di dedicargli un libro, scrive di getto un saggio, che ha un titolo, per gli studiosi d'accademia, sconcertante, Che cosa è rimasto di un Rembrandt strappato in pezzetti tutti uguali, e buttato nel cesso: ed è sconcertante anche per il lettore. Immaginate una serie di pagine divise tipograficamente in due parti: da una parte scorre un diario intimo («Quando un giorno, nello scompartimento di un treno, guardando il viaggiatore seduto di fronte a me, ebbi la rivelazione che ogni uomo ne vale un altro...»), il diario, puntiglioso e disperato, di un'atroce sohtudine; dall'altra parte, in regime di abbagliante contemporaneità critica, una serrata interpretazione del grande artista olandese: «Rembrandt scopre come mai, in ogni istante, ogni evento è solenne: è la sua sohtudine ad indicar- FARE GOSSIP CON L'IPPOPOTAMO L'IPPOPOTAMO Stephen Fry trad. Paolo Canton Baldini & Castoldi pp. 304 L 32.000 L'IPPOPOTAMO Stephen Fry trad. Paolo Canton Baldini & Castoldi pp. 304 L 32.000 TEPHEN Fry è un giovane attore alto e massiccio del quale si parlò molto in Inghilterra un anno fa perché scomparve piantando in asso di punto in bianco, subito dopo la prima, una commedia a due personaggi, che in seguito al suo forfait dovette chiudere. Di lui si riparlerà fra poco anche da noi perché a Venezia è atteso il suo ultimo film «Wilde», in cui sostiene la parte dell'esteta, raccontandone in particolare l'iniziazione all'omosessualità come una sorta di vagheggiamento per la purezza e la bellezza, associate all'adolescenza. Uomo di indubbio talento, molto apprezzato dai critici, Fry è anche scrittore, nella tradizione satirico-eccentrica di Evelyn Waugh (nonché, beninteso senza l'innocenza, del da costui ammiratissimo P.G. Wodehouse) ancora più che del sempre invocato Oscar: perlomeno, il mondo di Waugh, o meglio un suo equivalente aggiornato, visita il romanzo L'ippopotamo, in cui figurano un intellet¬ tuale spiritoso e perennemente ubriaco, una lussuosa villa di campagna inglese e un gruppo di persone intelligenti e spregiudicate che amano spettegolare. La storia comincia in prima persona, con l'autodescrizione del principale narratore-testimonedeus ex machina, tale Ted Wallace, già poeta famoso e amrnirato, ora critico teatrale amico della bottiglia, appena licenziato dal giornale per avere attaccato un autore suscettibile con violenza ingiustificata. Non troppo preoccupato, mentre si guarda intorno Ted riceve, da una ricca ragazza che conosce un poco, l'incarico strano e compensato profumatamente di trascorrere parte dell'estate nella solenne magione di campagna dei suoi amici Logan, ufficialmente per candidarsi a scrivere la biografia del capostipite, imprenditore di grande successo, in realtà per capire se uno dei suoi rampolli, un ragazzino di cui Ted è stato a suo tempo padrino di battesimo, abbia o non abbia certi miracolosi poteri di guaritore. Non senza qualche scompenso per la linea narrativa, dopo il trasferimento di Ted nel teatro delle operazioni, il libro abbandona il poeta beone come unico cronista e procede alternando i suoi resoconti alle risposte della committente e a lettere di altri, e quindi diventando quello che sarebbe un romanzo epi¬ stolare vero e proprio se non ci fossero poi anche ulteriori interventi indipendenti e onniscienti dello scrittore ufficiale. Tutte queste voci ci consentono per il presente di seguire passo passo le strane attività del piccolo David, che effettivamente si alza di notte quando nessuno lo vede e va a compiere strane e un po' sconcertanti operazioni su di una cavalla malata; e per il passato, di essere ragguagliati sugli interessanti seppure ininfluenti antecedenti di Logan, piccolo immigrato ebreo fondatore di una dinastia che più britannica e aristocratica non si può. Fry cerca un po' troppo spesso di essere a ogni costo disinvolto, aggiornato, colto e divertente, e a differenza dei suoi modelli non sempre cela agevolmente lo sforzo. D'altro canto, e non è poco, riesce a farsi leggere, e talvolta addirittura a sorprendere. Le premesse che dobbiamo accettare, in altre parole, sono un po' traballanti - soprattutto, non c'è alcun vero motivo perché Ted venga incaricato della missione che mette in moto tutto quanto; ma poi lo sviluppo è coerente, e in particolare il risvolto, dove tutto si spiega, risulta di piena soddisfazione, nella promessa chiave di cinica comicità. MasoJino d'Amico glielo». Meno inconsueto, ma non meno penetrante, è l'altro saggio di critica artistica, L'atelier di Alberto Giacometti del 1957, dettato, tra l'altro, da un'intensa ammirazione reciproca tra scrittore e pittore (Giacometti considerava i capelli una menzogna e fu, sin dal primo incontro, superbamente attratto dal cranio calvo di Genet). Ma il cuore del cuore del libro, per dirla all'inglese, sono i tre scritti ispirati alla più alta, cioè alla più solenne e tragica, poesia dell'omosessualità cui uno scrittore del Novecento (e Genet è tra i massimi del secolo) abbia saputo ispirarsi. Scrivo omosessualità, ma dovrei scrivere amore pederastico: così, infatti, Genet insistentemente lo connota. Il Ragazzo criminale venne scritto nel 1948, su committenza della Radio francese, e poi rifiutato: «Avrei voluto far sentire la voce del criminale. Non il suo lamento, ma il suo canto di gloria». E di un vero e proprio epinicio si tratta (ispirato al triennio trascorso, tra i sedici e i diciannove anni, nel riformatorio di Mattray) in cui prende a rifulgere la bellezza oltraggiosa, l'insolente nudità del giovane fuorilegge. Questo angelico furore, questo ostentato sprezzo degli altri nell'adolescente «diverso» è al centro de II funambolo del 1957, sorta di dia¬ logo socratico tra Genet e un giovane artista del circo, l'algerino Abdallah Bentaga, di cui «Genet decise di fare - per citare ancora Pinotti - un funambolo, sottoponendolo, nel corso delle loro interminabili peregrinazioni per l'Europa, a uno spietato allenamento»: «L'amore - ma quasi disperato, ma pieno di tenerezza che devi dimostrare al tuo filo avrà la stessa forza che il filo di ferro dimostra nel reggerti». Ma dove Genet sembra quasi superare se stesso, per la pienezza e, ad un tempo, per la severità del proprio empito ispirativo, è nei Frammenti (1954) di un'ambiziosa opera su Mallarmé, rimasta incompiuta. Sono queste le pagine che, per il loro rigore morale, mi hanno fatto prepotentemente ricordare la privata invettiva del Pasolini di più di vent'anni fa. Giacché esiste una forma di rigore, forse la più ardua da praticare dinanzi ai nostri simili, nel difendere la propria alterità: «La pederastia comporta un sistema erotico suo proprio, sensibilità, passioni, amore, cerimoniale, riti, nozze, lutti, canti suoi propri: una civiltà, dunque, ma che, invece di legare, isola, ed è vissuta da ciascuno di noi in sohtudine. Una civiltà morta, in definitiva». Guido Davico Bonino CHE GRAN RACCANO IL TERZO REICH PIPISTRELLI Marcel Beyer Einaudi pp. 242 L. 30.000 PIPISTRELLI Marcel Beyer Einaudi pp. 242 L. 30.000 IEG Heil, Sieg Heil risuona negli stadi, sulle piazze, alla radio: un coro infernale, il trionfo della bestialità. E' l'eco demoniaca di una lingua che ha parlato in altri tempi con la voce di Lessing e Goethe. Ma il nazionalsocialismo l'ha indurita e avvilita. Ricordate certi spezzoni in tedesco in Roma città aperta? Suoni di barbarie in un mondo disumano. Suoni che l'ingegnere Hermann Karnau colleziona. Un po' per mestiere e un po' per mania. Lui lavora alle dipendenze del ministro della propaganda nazista Joseph Goebbels, sa ogni cosa su microfoni, amplificatori, fonografi. Prepara le parate di regime e col suono mobilita tutti, anche gli invalidi: sincronizza i movimenti dei ciechi, rimescola le budella perfino ai sordomuti, Karnau è un tecnico del suono, un collezionista di voci che s'alzano da un mondo brutale. E' un personaggio e un'idea originale attorno a cui Marcel Beyer, uno svevo nato nei pressi di Stoccarda nel 1965, ha costruito il romanzo Pipi¬ strelli, sua prima opera uscita in italiano nella scorrevole traduzione di Giuseppina Oneto. Come ogni scrittore tedesco che si rispetti anche Beyer ha un debole per un certo intellettualismo. E tale è l'obiettivo di Karnau: realizzare una mappa sonora, un regesto delle sfumature vocali. Si butta a capofitto nel brusio del mondo e ne capta i sussulti quotidiani e le voci più svergognate. Da un colpo di tosse alle performances sonore in un letto di bordello. Dalle urla del Fùhrer al boato della folla. Dai gemiti dei prigionieri al balbettio di un moribondo. Ma il nostro tecnico va oltre ciò che configura un senso; gli interessa la zona oscura, lo spazio fisiologico entro cui il suono lentamente si addensa. E' ossessionato dalle impercettibili vibrazioni che si staccano dal silenzio e non sono parole, ma eco primordiale dell'anima. Per questo Karnau non esita a collaborare con medici SS: lavora sugli organi fonatori di uomini e animali, taglia, seziona, distrugge. E lo fa con la stessa acribia con cui Beyer costruisce il romanzo, aggregando spezzoni e flash. Di fronte alle mostruosità della guerra lo scrittore lascia scorrere le immagini di un'infanzia inquieta, ma pur sempre incantata: la vita quotidiana dei figli di Goebbels e il loro sodalizio con Karnau. Soprattutto Helga, la primogenita, alle so¬ glie dell'adolescenza, esprime un sommesso smarrimento che segna i momenti più alti della narrazione. Il difetto di Beyer è di essere troppo consapevole, di avere in mente più idee che personaggi. Di amare con eccesso le manie e le ossessioni di Karnau, il suo mondo polverizzato in voci, agghiacciante testimonianza di una follia senza scampo. Ridotto a suono, il Terzo Reich echeggia con stridori e dissonanze che solo la voce di una bambina può attutire, quella che l'ingegnere si ostina a non registrare. Lo farà solo da ultimo nel bunker di Hitler, prima che Goebbels decida di far morire i propri figli e la madre dia loro il veleno. Quell'infanzia sedimentata nel solco di un disco è l'ultimo atto di una discesa agli inferi, una sorta di baluardo contro il silenzio che incombe. Beyer ha registrato la foiba dall'angolo estremo, nell'attimo del suo assordante crepitare. Con l'orecchio sofisticato dì un pipistrello. E forse con eccessivo entusiasmo per il suo collezionista, che ogni tanto annoia il lettore. Per fortuna gli è rimasta la nostalgia per i suoni della vita. «La voce del passato non esiste», leggiamo ad un certo punto. Fa piacere riascoltare il silenzio dopo il vociante sabba degli orrori. ... Luigi Forte CARON: IN MARE A IMPARARE LA VITA CHE META' BASTA Giuliano Caron Donzelli pp. 192 L. 22.000 CHE META' BASTA Giuliano Caron Donzelli pp. 192 L. 22.000 N viaggio in treno dal Veneto fino a Genova, per l'imbarco su una nave mercantile, un giorno e una notte nella città, le prime esperienze sulla nave, l'attraversamento dell'Atlantico con qualche tempesta, i successivi approdi a Miami, a Veracruz e a Tampico, il viaggio di ritomo, con un'altra tempesta raccontata, tuttavia, di scorcio, alcune sbronze sempre più epicamente descritte, a Genova, sulla nave, soprattutto a Veracruz, costituiscono tutta la trama di Che metà basta di Giuliano Caron. A raccontare è il giovane Diciassette, originario delle montagne venete, abbandonato dai genitori appena nato e allevato dai nonni, ma senza mai manifestazioni di affetto, ospite di ospizi e orfanotrofi, con quel nome che è l'emblema della più radicale sfortuna, che egli crede talmente connaturata con la sua esistenza da stupirsi se poco poco le cose gli vanno un po' bene, incontra una brava persona, il pranzo di Natale è abbondante. Diciassette ha un'aman¬ te, Elsa, che abbandona all'inizio della narrazione, pur essendole legato un poco pateticamente quanto con molta polemica per il troppo parlare della donna e l'eccesso di freddezza dopo i rapporti amorosi, e un'altra ragazza, Charlotte, incontrata a Miami, che è la ragione dell'ultimo imbarco, ma è anche un mito, un sogno, quello dell'impossibile alternativa alla propria condizione sfortunata. Ma non qui sta l'originalità del romanzo, quanto invece nel linguaggio adoperato, bizzarro, in¬ ventivo, fitto di termini gergali e dialettali, di modismi tipici come quello che dà il titolo all'opera o come «colera o peggio» per indicare superlativamente quanto di più negativo possa capitare o si possa incontrare. E' un linguaggio, tuttavia, fortemente metaforico, con, dietro, una sapienza colta di libri e tradizione che spunta a tratti in un'allusione o in una citazione messe lì, per indicare la consapevolezza del gioco che lo scrittore conduce, registrando reazioni, Un'educazio attraversami da Genova a è il tema del primo re di Giuliano C «Che metàr.l edito da Do «un linguagg inventivo, ricco di tern molto metal