Prigionieri del nulla osta sognando pace e un lavoro di Lodovico Poletto

Prigionieri del nulla osta sognando pace e un lavoro Prigionieri del nulla osta sognando pace e un lavoro Enver era sbarcato a Bari il 23 marzo. Nei campi profughi pugliesi, lui e i suoi due figli, si erano fermati solo il tempo necessario per ottenere dalla questura il permesso di soggiorno temporaneo in Italia. E poi via, in treno verso il Nord. Destinazione Torino, la città nella quale, da sette anni, vive sua figlia. E dove, da febbraio, abitava già sua moglie, Fatmira. Enver, sul nulla osta della questura barese Balla Enver, 46 anni, ex camionista di Durazzo, è uno dei 200 profughi arrivati a Torino dal marzo scorso. Uno dei 96 ancora oggi reperibili. C'è chi è fuggito, chi è stato rimpatriato, chi si è trasferito, facendo perdere le tracce. Enver, invece, è rimasto. E con lui i figli, e altre quattro persone adesso tutti ospitati in un alloggio della casa delle suore vincenziane, in via Ormea 119. La proroga del rimpatrio gli ha fatto tirare un sospiro di sollievo. A Durazzo non ci vuole più tornare. L'Albania è solo una parte della sua storia che, dice: «Ormai non mi appartiene più». Gjok Marghjohaj, invece, a Le- sha - un centro nel Nord del Paese - spera di poter ritornare. Quando? «Un giorno - dice - quando non ci sarà più la guerra. E quando potrò riavere una casa e un lavoro». Faceva il pescatore, Gjok. Aveva una casetta in riva al mare e un peschereccio. La barca gliel'hanno rubata. La casa è stata saccheggiata e poi occupata dai ribelli armati di fucili. «Un giorno torneremo - insiste - ma laggiù deve prima tornare la pace. Altrimenti che futuro avranno i nostri bambini?». E di bambini al centro di accoglienza a San Giorgio Canavese ce ne sono otto. Il più grande ha 10 anni. Il più piccolo due mesi e mezzo. Si chiama Risen. E' nato in Italia, all'ospedale di Ivrea. Sua madre, Violeta, faceva parte del gruppo di profughi che Enrico Levati, e il comitato emergenza Albania, di Ivrea, hanno ospitato in alcune strutture cittadine. «Il rimpatrio di questa gente - spiega Levati - deve essere subordinato all'esistenza di un progetto per il reinserimento sociale di queste persone. Molte delle quali hanno perso tutto. Obbligarle a tornare in patria senza un piano di aiuti significa mandarle allo sbaraglio. Ne abbiamo parlato anche con il ministro Livia Turco. Ci sono buone speranze». E allora ben venga la proroga del nulla osta provvisorio per altri due mesi. Consente tempi più lunghi per elaborare un progetto realizzabile. Chi, invece, non ha voluto rischiare il rimpatrio forzato è sparito. Rajio quando viveva in Alba¬ nia era un militare. Era arrivato a Torino nei primi dieci giorni di marzo. Il nulla osta provvisorio lo mostrava con orgoglio. «Sono un rifugiato politico. Ho chiesto asilo nel vostro Paese» raccontava il giorno dopo il suo arrivo mentre, nel piazzale davanti alla stazione, cercava connazionali. A Torino ci era arrivato per caso. «E' la città italiana più lontana dall'Albania» diceva. Dormiva dove capitava. Andava a mangiare alla mensa dei poveri dietro Porta Palazzo. Ora è scomparso. Chi non ha ceduto alla tentazione di sparire ha vissuto nell'angoscia del rimpatrio forzato. Ore e giorni di incertezza e senza fare nulla. I quattordici ospiti della casa delle suore dell'Immacolata non sanno più che fare per ammazzare il tempo. Non possono nemmeno lavorare. «Hanno solo un nulla osta temporaneo, non un vero permesso di soggiorno» spiega Marita Bevilacqua, funzionario della Prefettura di Torino, incaricata di seguire la questione albanesi. Eppure molti di loro avrebbero voluto trovare un'occupazione. Guadagnare qualcosa, provare a rifarsi una vita. Enver Balla è tra questi. Appena giunto a Torino era riuscito a trovare un lavoro. Poca cosa, bassa manovalanza. Un impiego durato 15 giorni. Poi lo hanno costretto a smettere: sul nulla osta provvisorio, a lui come a tutti i profughi giunti in Italia da marzo ad oggi, è stato scritto: «Divieto di lavoro». E così è successo anche sua moglie, Fatmira. A sua cognata. Àgli altri ospiti del centro di via Ormea. «Adesso ci mantiene suor Angela dice Fatmira -. E' molto buona con noi». Nonostante la disponibilità della religiosa, però, loro non ci stanno a passare giorni e giorni nell'ozio forzato. Ora quasi tutti lavorano. Ma in nero, in aziende in cui fanno lavori che tutti ormai rifiutano. Lodovico Poletto La legge impedisce loro qualsiasi impiego e c'è chi s'arrangia in «nero» Nella foto grande una famiglia albanese ospite in via Ormea e accanto da sinistra Enver Balla e Gjok Marghjohaj che faceva il pescatore in Albania

Persone citate: Balla Enver, Enrico Levati, Levati, Livia Turco, Marita Bevilacqua, Risen