La tradizione ci salva dai barbari di Sandro Cappelletto

DISCUSSIONE. Berlinsky risponde a Boulez: non violare il «culto della memoria» DISCUSSIONE. Berlinsky risponde a Boulez: non violare il «culto della memoria» La tradizione ci salva dai barbari «E' una missione che viene da Dio» LCAORLE (Venezia) / IDEA gli venne da ragazzo, studente al Conservatorio di Mosca. In quell'e I state del 1945, il violoncellista Valentin Berlinsky non poteva sapere di iniziare un'avventura unica: fondare un Quartetto d'archi destinato a diventare il più longevo nella storia della musica. In quello stesso anno nasceva il Quartetto Italiano, nel '47 l'Amadeus e lo Janacek, nel '44 aveva iniziato il Juilliard. Nomi che sono storia: il Borodin ò anche il presente. Cinquantadùe anni dopo, della formazione originale è rimasto soltanto lui. I tre musicisti che ora lo affiancano appartengono a due generazioni diverse: primo violino e viola sono molto giovani, e suonano nel Borodin da pochi mesi, il secondo violino, cinquantenne, ò con lui da più di vent'anni. Con un concerto di stupefacente energia e coraggio interpretativo, hanno suonato (La morte e la fanciulla di Schubert, Il quartetto n. 2 di Shostakovic) nel duomo di Caorle, stracolmo. Si esibiranno ancora lunedì per il Festival di Portogruaro, appuntamento di grande qualità dedicato da 15 anni alla musica da camera. «Da quando ho iniziato, nulla è cambiato. Dio mi ha dato una missione, conservare una tradizione. Semplicemente lo sto facendo», dice Berlinsky. Viene dunque da questo interprete russo, amico di Sviatoslav Richter, Leonid Kogan, Emil Gilels, Mstislav Rostropovic, la prima risposta alle affermazioni rilasciate a La Stampa da Pierre Boulez: «La nostra cultura si compiace troppo del proprio passato, diventa incapace di pensare al presente, ancor più al futuro». «Più la situazione politica e civile si fa difficile, più anarchia e disordine sono forti nella disperata Russia di questi anni, più ancora il pubblico vuole sentire qualcosa di importante: non solo a Mosca, ma a Nizhnij Novgorod, Saratov, Voronezh. Ovunque la tradizione della nostra musica è un conforto, una certezza. Gli artisti scappano dalla Russia: la vita è cattiva, fare concerti è difficile, non ci sono denari per questo. Non oso immaginare cosa potrà accadere se continua così». Dice Boulez: «La tradizione ci soffoca». Voi invece cambiate per rimanere voi stessi. Come è possibile? «L'arrivo di un nuovo primo violino in un Quartetto è come un intervento di chirurgia plastica: tutto si può ricostruire, dalle braccia alle gambe, ma la testa no, è impossibile. Una trasfusione di sangue nuovo pulisce il vecchio organismo, lo rende più forte. Il giovane Ruben Aharonian l'ho scelto tra 16 candidati: il segreto, ora, è soltanto uno, continuare a suonare assieme perchè la tradizione continui a testimoniare la nostra civiltà». Perché tanto amore verso Shostakovic? Perché lo avete scelto questa sera e per presentarvi tra pochi giorni, nella vostra nuova formazione, al pubblico di Parigi? «Perché lei ama suo padre e sua madre? Lui è grande come Mozart, come Verdi. E per la musica da camera come Boccherini. E' un classico: aveva un solo ritratto nel suo studio, quello di Beethoven». Non la foto di Stalin? «Il potere sovietico è stato la sua tragedia, come per tanti artisti russi. Ha ricevuto tanti di quei colpi bassi! Alla fine della vita dovette iscriversi al partito: lo conoscevo bene, fu un'altra disperazione. Capisce, ora, cosa vuole dire per noi suonarlo, poterlo finalmente sentire?». Voi avete tante volte suonato con Richter: che cos'è la scuola russa... «No, mi scusi, non riesco ancora a parlare di Sviatoslav, non è passato nemmeno un mese dalla sua morte». Che cos'è per lei il Quartetto Borodin? «E' più della mia vita. Io ho un'idea: questo Quartetto deve vivere in eterno, tanto quanto vivrà la Terra. Non sono pazzo: naturalmente cambieranno gli interpreti, ma la sua fisionomia, il suo volto resteranno riconoscibili. Si tratta solo di consegnare la fiaccola della staffetta. Nessuno degli altri grandi Quartetti ha avuto quest'idea della continuità: il Borodin durerà sempre, non solo il nome, ma la nostra tradizione. Per le leggi della vita sarò io il primo a morire e dunque dovrò presto scegliere il mio sostituto: voglio essere io a farlo». E' ormai l'una di notte, Berlinsky continua a sorseggiare il suo whisky. Ci salutiamo con quella cordialità sincera e cerimoniosa che solo i russi sanno dimostrare. Poi mi richiama. «Amo così tanto l'Italia. Nel 1958, a Roma, a Santa Cecilia... Fu il nostro primo concerto all'estero... Lei voleva sapere di Richter?... Noi abbiamo suonato per lui stasera... Non sono mai stato suo allievo, naturalmente: lui pianista, io violoncello. Eppure, è stato il mio maestro. Bastava sedersi vicino, o soltanto girargli le pagine mentre suonava: era capace di aprirti il mondo, era un enorme musicista, l'ultimo grande interprete del ventesimo secolo... Resiste ancora, soltanto, Menuhin». E poi? «Poi, chi verrà dopo di noi. Chi sceglieremo noi». Sandro Cappelletto Il fondatore del Quartetto Borodin: «I compositori del passato contro la Russia selvaggia» Qui a sinistra, il quartetto Borodin; a destra il grande direttore francese Pierre Boulez; sotto, il compositore russo Dmitrij Shostakovic

Luoghi citati: Italia, Mosca, Parigi, Portogruaro, Roma, Russia, Venezia