Assalto alla missione italiana: tre morti

Un centinaio di persone armate ha attaccato i rifugiati, il vescovo accusa il governo di Arap Moi SCÌNTO Un centinaio di persone armate ha attaccato i rifugiati, il vescovo accusa il governo di Arap Moi Assalto alla missione italiana; tre morti Spari a Mombasa sui profughi ospitati dai padri della Consolata MOMBASA DAL NOSTRO INVIATO Rispetto a qualche giorno fa, nel giardino lo strato di guano è più alto, le tende di plastica più numerose, il terrore più spesso. Likoni, «Italian Mission», periferia di Mombasa: questa mattina una banda armata ha preso d'assalto la sede missionaria dell'ordine della Consolata dove fino a poche ore fa si ammassavano quattromila rifugiati. Ci sono stati dei morti questa mattina, almeno tre, i feriti sono una decina. Pochi giorni fa, mentre tutti si preoccupavano degli esiliati d'oro di Ma lindi e nessuno ancora si era accorto di questa missione tramutata in bolgia un prete di quelli che si rimboccano le maniche, padre Pio Callegaro, spiegava semplicemente: «Finché è possibile daremo asilo e qualcosa da mangiare a questa gente, anche se qui intorno c'è molta gente che non lo sopporta e vorrebbe farci sprofondare tutti nel terrore». Bene, è successo. Il sole era spuntato da poco, mancava un quarto d'ora alle sette quando a questo cancello ha cominciato ad avvicinarsi una folla minacciosa. «Saranno stati un centinaio - raccontano - molti avevano giacche militari o baschi della polizia». Questa è Likoni, la grande bidonville, una strana Soweto controllata dal potere. A cinquecento metri da qui, appena dieci giorni fa tutto è cominciato con l'assalto ad una stazione di polizia, l'assassinio di sette uomini, la razzia. «Sono arrivati fino al cancello, molti erano armati, hanno cominciato a sparare...». Ora provate a immaginare il giardino di una villetta poi trasformata in chiesa cattolica. Una linda spianata d'erba su cui in pochi giorni, nonostante ogni sforzo, i rifiuti di quattromila persone una sull'altra hanno steso un viscido manto scuro. C'era gente che in quel momento dormiva ancora sotto i teli di plastica (uomini, in maggioranza: quasi seicento fra donne e bambini trascorrono la notte in chiesa o nell'oratorio, su materassi stesi per terra). Quando la sparatoria s'è iniziata, è stato il caos. C'erano dieci poliziotti di guardia, a quel cancello. Dieci poveracci in tuta mimetica che trascorrevano le ore seduti in circolo, chiacchierando e fumando. Sono stati loro a reagire, gli scambi di raffiche si sono in- seguiti fra gente che quasi si poteva toccare. Altri scambi di colpi, poi il «commando» si è disperso: per terra sono rimasti molti corpi. Tre senza vita: quello di un rifugiato, quello di un poliziotto, quello di uno sconosciuto. Definizione bizzarra, quest'ultima, in un luogo in cui i rifugiati hanno continuato ad affluire senza che spesso neanche i missionari ne conoscessero il nome. Uno degli uccisi è rimasto riverso proprio sul cancello, non si capisce se fosse fra quelli che volevano entrare a forza o fra quanti cercavano di difendersi. Anche in Kenya, l'etnia non basta a determinare riconoscimenti. La gente rifugiata qui dentro è composta da Karuha, Lou, Kikhuyu, i gruppi del Centro-Nord che la gente della costa sta scacciando. I Digo di qui, quelli che votano in massa per il partito del presidente e vogliono terrorizzare gli altri, hanno tratti molto simili. E' strano come da morti certe differenze scompaiano. Adesso dinanzi alla missione la polizia è arrivata in forza, qualcuno spiega che gli assalitori sono usciti da lì, poche decine di metri più avanti, da una macchia dove la baraccopoli cede il passo ad una fìtta piantagione di banani. Dietro i banani però ci sono altre baracche, ed in qualcuna di quelle baracche un estremista del «Kanu», il partito di Daniel Arap Moi, che continua a dettare órdini ad organizzare le spedizioni punitive. «Che fare? Continuare ad accogliere questa gente, a comprar ogni mattina quintali di pane, mais, riso per sfamare questi profughi e aspettare che la situazione si calmi...». Raffaello Lombardo è il viceparroco della missione. Il parroco, Camillo Arnaudo, è in giro cercando di trovare aiuti. Ci sono ancora tre religiose (suor Angela Carla, suor Vitalma, suor Lucy) e tutte sono troppo indaffarate per perdere tempo nei commenti. La bambina nata in chiesa pochi giorni fa ha bisogno di cure, non sta benissimo. I due piccoli morti negli stessi giorni sono stati seppelliti senza cerimonie. Per fortuna, un pozzo autonomo rifornisce d'acqua questa comunità di disperati. Giorno dopo giorno, mentre le case bruciavano e la gente delle tribù centrali fuggiva via portando le proprie cose sui carretti la missione italiana si trasfor¬ mava nel solo luogo di resistenza a Likoni. Il solo in cui quattromila reprobi continuano a vivere, in qualche modo protetti, e rifiutano di andare via. Per l'ala più estrema del «Kanui» è proprio questo il fatto insopportabile. Pochi giorni fa John Njenge, vescovo di Mombasa, aveva celebrato Messa su questo prato, e l'omelia conteneva parole molto dure sul regime, la corruzione che lo sorregge, l'intolleranza che tenta di puntellarlo. Anche stamani John Njenge è tornato alla missione, adesso la sua condanna è espressa in una dichiarazione formale. A Nairobi, la capitale, tredici ambasciatori si rivolgono a governo ed opposizione chiedendo che si tenti «un accordo negoziato». L'ambasciatrice americana, Prudence Bushnell, dichiara che il Paese è in una spirale di «terrore organizzato». Si annuncia dolorosa, la via che condurrà alle prossime elezioni kenyote. Giuseppe Zaccaria Cade nel vuoto l'appello internazionale per aprire una trattativa L'ambasciatrice Usa «E' una spirale di terrore organizzato» Una pattuglia della polizia kenyota a Likoni, dove è avvenuto l'agguato

Luoghi citati: Kenya, Nairobi