Sullo Zambesi ballando con i leoni

Sullo Zambesi/ ballando con i leoni L'incanto dei tramonti di fuoco sul fiume, regno di ippopotami e coccodrilli Sullo Zambesi/ ballando con i leoni Timore e brividi del cittadino di fronte alla belva KUBU (Zambia) DAL NOSTRO INVIATO L[ Africa bianca del nuovo lusso di massa può disperdersi, oliando 10 voglia, nell'immensità di un nulla organizzato. Per esempio, sotto forma di camera d'albergo all'aperto. Una suite dislocata sull'ansa del grande fiume Zambesi, a metà savana tra Iivingstone e Kazungulu, in Zambia, isolata da un bosco di baobab, costa più di duecento dollari. Come la suite di un grande albergo. Solo che qui a Kubu è per davvero all'aperto, dal che deriva la sua esclusività. Vasca da bagno matrimoniale in pietra ricoperta di felci, con due gradini per entrarci. Quattro tronchi di acacie vive ai lati del lettone racchiuso nella zanzariera. Di legno canna paglia pietra sono anche il gabinetto, la doccia e il lavandino oltre che le poltrone, gli abat-jour e l'armadio: un albero con gli appendiabiti che penzolano dai rami. C'è anche modo di chiudere a chiave 11 locale, inserendo l'allarme elettronico. Ma non serve. L'unico disturbo potrà venirvi dal gorgoglio intestinale degli ippopotami che dormono fra i papiri tre metri lì sotto, i cui occhi a fior d'acqua diventano fosforescenti con la luce notturna delle torce. Mentre l'alba secca invernale (l'estate verrà umidissima nei giorni di Natale) è un concerto di uccelli variopinti che vi godete raggomitolati sotto il piumone, in attesa dei primi raggi per riempire la vasca d'acqua bollente e di lì rimirarne i riflessi dorati nello Zambesi. Così il pigro uomo bianco ricomincia a percepirsi animale tra gli animali, vincolato al ciclo degli elementi fondamentali. Cielo, acqua, fuoco, stelle, rumori, odori, tracce. Non vi è probabilmente altro luogo sulla Terra rimasto all'apparenza così antico nella nudità del rapporto elementare che t'impone con la natura. An che se, a ogni passo, inseguendo l'antico trovi il moderno. I due giovani inglesi che ti offrono dinner e breakfast su di una sugge stiva palafitta in mogano e tek, mai avrebbero potuto concepire la sperduta Kubu senza la rete in formatica dell'e-maiZ che li colle ga in tempo reale col mondo inte ro. Sono eremiti tecnologici, esploratori col bit. Noi, ultimi arrivati dell'Africa bianca, con i nostri fuoristrada fra cui primeggia la Land Rover targata Cuneo e i nostri sacchi a pelo, salutiamo gli agi di Kubu e continuiamo a inseguire lungo il corso dello Zambesi la vita di un continente che ci è estraneo. Di nuovo placido dopo l'urto delle Cascate Vittoria, il fiume scende a Est separando per centinaia di chilometri lo Zambia dallo Zim babwe, fino a Kariba dove i tecnici italiani lo imbrigliarono ne gli Anni Sessanta costringendolo a dar vita a un immenso lago, per elettrificare le due ex Rhodesie. Alberi spettrali fuoriescono ancora dalle sue pescosissime acque, navigabili dall'uomo bianco a bordo di alti battelli di ferro pluricabinati con ristorante e or chestrina che si possono noleg giare a Binga per 400 $ al giorno Più sobriamente noi ci siamo accampati a Deka, subito prima, e ben ce ne incolse. Perché qui lo Zambesi ci ha regalato all'alba tutta la sua struggente bellezza E' bastato risalirlo di un paio d'anse con una barchina a motore, all'ora in cui di colpo cessa il gracidare delle rane, quando le famigliole degli ippopotami rico minciano le proprie insidiose abluzioni: per qualche minuto scompaiono, ma se riaffiorando il nostro legno risultasse loro d'impaccio, basterebbe uno scrollone a rovesciarlo e un morso a spez zarlo in due. Al resto penserebbe ro i coccodrilli. Difficile pensare di uscire vivi da un bagno nello Zambesi. Gli ippopotami, con le zanzare malariche, sono gli ani mali che statisticamente mietono più vittime in Africa, ben più dei leoni. Quanto ai coccodrilli, prediligono i bambini neri che pescando sulle rive non si accorgono del loro silenzioso assalto; li annegano, li incastrano nelle roc ce sott'acqua, attendono la pu trefazione per il banchetto. Grazie a Vincent, buon cono scitore della zona, saluteremo gli ippopotami da rispettosa distan za e assisteremo invece a quell'evento quotidiano ma misterioso che è il risveglio della natura. Volano a pochi metri da noi l'aquila pescatrice e l'enorme airone dal collo dorato, poi anatre e pappagalli coloratissimi. Il martin pescatore prende posto su un iso lotto mentre sulla riva si abbeverano un facocero e chissà quale specie di antilope. Quando abboccheranno i primi misteriosi pesci grossi come trote, con Cino e Mario ci sentiremo abusivi come li rubassimo, tanto è facile. Anche se i famosi pesci-tigre che possono raggiungere un peso di venti chili li vedremo solo appesi come trofei, grazie al delicatissimo lavoro dei tassidermisti. L'incanto è assoluto. Ci aspettiamo solo che tra gli ibiscus fioriti e le tamerici facciano infine la loro comparsa elefanti e fiere, quando invece si disegnano di fronte, sulla costa zimbabwana, il prato all'inglese e le bougainvillee di un club privato, di quelli messi su dai bianchi di Harare (l'ex rhodesiana Salisbury) per venire a pesca nel fine settimana col bimotore a elica. Non sarà qui che faremo nostro il sapore di selvaggio. Né andremo a cercarlo nei pur splendidi, celeberrimi parchi sottostanti dello Zimbabwe e del Botswana perché il nostro capospedizione Mario, che ormai li ha esplorati tutti, è stato categorico: «Se cerchiamo il selvaggio lasciamo perdere i parchi ben pettinati, di quelli con l'asfalto e il ranger che segnala via radio l'elefante al punto 15, e ale tutte le comitive corrono al punto 15. Tutto bello, tutto finto, come al parco Kruger in Sud Africa». Devi conquistartelo, l'elefante. E soprattutto, devi conquistartelo, il leone. Già, ammettiamolo. E' nell'incontro a mani nude con il leone, la fiera divoratrice dei cristiani nel Colosseo, il ruggito che precede i migliori western hollywoodiani della nostra infanzia, che si consuma l'orgasmo dell'Africa bianca. Bastano le sporadiche telefonate con l'Italia a confermarcelo. La domanda dei bimbi più piccoli rimasti a casa è sempre la stessa: - Papi, l'hai visto il leone? - No Giuseppe, ho visto la zebra, la scimmia, il coccodrillo, l'impala, ma il leone no. - Vabbè, pazienza, riprovaci. Ti passo Davide. - Sono Davide, papi, l'hai visto il leone? Come al solito sarà la leggiadra incoscienza di Pamina a procurarci l'emozione che sazierà i figli come i colleghi d'ufficio, e di cui sarà reso conto agli amici riuniti per il casalingo safari diapoparty («perché la luce africana, sai, puoi renderla solo in diapositiva, ho lavorato tantissimo di esposimetro ma dimmi tu se i contorni delle acacie ombrellifere nel cielo non sono proprio loro»). Accadrà nel parco Kafue, selvaggio e sperduto territorio di uno Zambia tuttora estraneo ai circuiti dell' «extreme» organizzato. Si tratta di una deviazione di duecento chilometri senza asfalto a NordOvest, seguendo un affluente dello Zambesi, il Kafue appunto. Le guide dicono che è grande come il Galles o il Massachusetts, e tu capisci solo che è immenso. Eccolo, finalmente, il grande nulla. Il bush è una distesa di erba gialla alta e secca, dove ti muovi giornate intere a trenta all'ora studiandone ogni impercettibile movimento, stregato sia dal panorama d'insieme che da ogni singolo essere vivente, oltre che dalle nuvole in fuga. Poi ti fermi ai bordi di un pan, il laghetto necessario all'abbeveraggio della fauna, da cui l'indomani mattina il gelo sprigionerà una nebbiolina sospesa a mezz'aria. E' giunto il momento di pensare al campo. Ma una volta prescelto il luogo, alle sei in punto, il capocomitiva Mario giustamente pretende che ogni attività logistica o di montaggio venga interrotta, affinché s'impartisca il rito del tramonto. Il tramonto africano. La palla di fuoco che incendia l'orizzonte e vi si annulla minuto dopo minuto fino alla definitiva scomparsa, quando i suoi riflessi purpurei sconfinano nelle tenebre. Solo dopo averne goduto, alle donne è consentito di provvedere alla cena mentre gli uomini si dedicano al falò, grossi rami disposti a raggio sospinti poco a poco nella brace. Già nel buio improvviso della sera faremo i conti con l'agognato animale, le cui tracce feline avevamo già studiato sull'apposito libro delle orme. «Rooarrrrr», e la muscolatura di tutti si contrae violentemente in un brivido. «E' lì dietro agli alberi», grida Daniela. Serafico replica il driver Felix: «Sarà a tre chilometri da qui». La savana ingigantisce ogni fruscio, figuriamoci il ruggito di un leone. La notte scorrerà di nuovo nel silenzio as- ^1 « soluto, interrotto solo dal sibilante riso delle iene che annusano la nostra pattumiera debitamente sotterrata. Queste sono le ore in cui i più fanatici tra i nuovi esploratori si appostano in nascondigli di fortuna, costruiti col fogliame e i resti di un termitaio, per sentire da vicino il respiro dell'elefante o addirittura indovinare la sagoma dell'introvabile rinoceronte. Non è davvero il nostro caso. Stretti l'uno nell'altra, affrontiamo collettivamente l'inquietudine che deriva dal sapersi i soli umani nel raggio di centinaia di chilometri. Ma c'è pur sempre un momento in cui, armato di fazzolettini detergenti, il turista da safari deve isolarsi dal suo gruppo. E' precisamente allora, accucciata nella savana, che Pamina ha fatto il suo scomodo incontro con la leonessa. Correndo ancora con i bermuda a mezz'asta, gridando contro ogni norma raccomandata dalle guide, ha raggiunto il campo dove già l'intera comitiva balzava sulle jeep. Cominciava così l'inseguimento. L'emozione dell'erba gialla che si muove, non capisci il perché, ma ecco l'enorme bestia dell'identico fulvo colore, difficile metterla a fuoco, e non è sola, ce n'è un'altra, no, anzi, due. La prima leonessa è lenta, dinoccolata, allunga pigramente una zampata verso la solita faraona selvatica ma si capisce che lo fa solo prò forma, ha già la pancia piena, e finalmente ci porta fin dai piccoli: tre leonesse con nove cuccioli che si rotolano e fanno toilette. Avvoltoi a decine in cielo perché, si sa, il re degli animali qualche avanzo di carogna può sempre concederlo agli altri. Sanno benissimo che le stiamo seguendo, ma esibiscono una sovrana indifferenza. Ormai il gioco dura da quasi due ore, siamo animali protetti da una corazza di ferro allibiti di fronte al congegno naturale della forza assoluta. Altro che jumping, rafting, fishing... «Rooooaaarrrr». La prima leonessa si è voltata lentamente verso di noi, ci ha inquadrati bene negli occhi e ha emesso il più inequivocabile dei suoi messaggi: «Adesso basta, per favore, avete rotto abbastanza». Non ce lo faremo ripetere due volte. Ecco cosa andavamo cercando in Africa: «Lo spirito senza storia» che le attribuiva Hegel, «lo spirito non sviluppato avvolto nelle condizioni naturali». Forse non crediamo più, come i colonialisti nostri progenitori, che i neri siano «gente senz'anima». Ma se veniamo in questa Africa, noi novelli Livingstone e Stanley, non è certo per conoscerne le genti, la cui civiltà ignoriamo e liquidiamo come un intralcio, bensì per loro, gli animali. L'ottima guida politically correct della Clup dice che venire fin quaggiù senza visitare gli scavi archeologici di Gran Zimbabwe sarebbe come andare in Egitto senza visitare le piramidi: la differenza è che qui lo fanno quasi tutti. Perché vanno in cerca dell'Africa bianca che è dentro se stessi, dell'antico. Non della moderna Africa nera in cui t'imbatterai comunque, quand'anche ti sforzi di evitare le miserabili Soweto di lamiera che s'ammucchiano intorno alle città. Sulla pista di terra rossa che dopo ottocento chilometri ci riporterà a Harare, veniamo fermati a un posto di blocco da uomini in tuta che impugnano un retino nero da cacciatori di farfalle. Scrutano dentro le automobili: è un posto di blocco per filtrare il passaggio non degli uomini ma delle mosche tse tse. I villaggi di tucul disseminati lungo il tragitto non rappresentano alcuna meta turistica, e l'uomo bianco vi si può fermare solo di fronte a spettacoli davvero notevoli come quello toccato a noi in un luogo denominato Siabuwa: nella canicola del mezzogiorno due squadre di calcio rigorosamente in divisa e altrettanto rigorosamente scalze si contendevano un pallone sgonfio su di un vasto campo di sabbia e sterpi, con le mucche che lo invadevano e un tifo forsennato. Magari il moderno fosse solo questo. Magari il moderno fossero solo i jumbo che spezzano il silenzio della notte africana se hai l'accidente di fare il campo proprio sotto la loro rotta. C'è poi sempre quella statistica che preferiresti ignorare, ma è stampata pure sulle guide turistiche a dissuasione dai rapporti occasionali: il 30% della popolazione censita risulta sieropositiva. L'Aids è divenuta malattia di massa.che sospinge a un'ulteriore separazione da questa Africa nera tagliata fuori dal circuito bianco dei safari. Dopo tutto siamo qm in vacanza, no? Al nuovo esploratore tecnologico d'agosto quel dubbio resterà sempre: e se l'avventura vera non si trovasse nella sohtudine dei parchi, ma invece nell'incontro diretto con l'Africa nera? Speriamo sia di nuovo il corso sinuoso dello Zambesi a darci la risposta quando infine penetrerà una terra davvero remota, chiamata Mozambico. Gad Lerner (3-Continua) emozione dell'erba gialla che si muove, ecco l'enorme bestia 3 fulvo colore. E' lenta, dinoccolata allunga pigramente una zampata e poi ci conduce fin dai piccoli A Kubu in un albergo % di lusso completamente all'aperto, letti compresi GLI N-; ESPLORATORI ' DELL'AFRICA BIANCA Pk, 1 9>- W Mirini 31 Nell'immagine a sinistra, un safari fotografico ""Vv-t^^^ < f Kqsoniqjr ^1 ZAMBIA lusa)^^_^\-f« appostanofortuna, cme e i resper sentirspiro dellrittura inma dell'inronte. Nostro caso. nvece si disegnano di fronte, ulla costa zimbabwana, il prato ll'inglese e le bougainvillee di n club privato, di quelli messi u dai bianchi di Harare (l'ex rhoesiana Salisbury) per venire a esca nel fine settimana col bimotore a elica. Non sarà qui che faremo notro il sapore di selvaggio. Né anremo a cercarlo nei pur splendii, celeberrimi parchi sottostanti dello Zimbabwe e del Botswana erché il nostro capospedizione Mario, che ormai li ha esplorati utti, è stato categorico: «Se cerhiamo il selvaggio lasciamo perdere i parchi ben pettinati, di quelli con l'asfalto e il ranger che egnala via radio l'elefante al punto 15, e ale tutte le comitive orrono al punto 15. Tutto bello, utto finto, come al parco Kruger n Sud Africa». Devi conquistarelo, l'elefante. E soprattutto, devi conquistartelo, il leone. Già, ammettiamolo. E' nell'incontro a mani nude con il leone, a fiera divoratrice dei cristiani nel Colosseo, il ruggito che precede i migliori western hollywoodiani della nostra infanzia, che si rarci l'emozione che sazierà i figli come i colleghi d'ufficio, e di cui sarà reso conto agli amici riuniti per il casalingo safari diapoparty («perché la luce africana, sai, puoi renderla solo in diapositiva, ho lavorato tantissimo di esposimetro ma dimmi tu se i contorni delle acacie ombrellifere nel cielo non sono proprio loro»). Accadrà nel parco Kafue, selvaggio e sperduto territorio di uno Zambia tuttora estraneo ai circuiti dell' «extreme» organizzato. Si tratta di una deviazione di duecento chilometri senza asfalto a NordOvest, seguendo un affluente dello Zambesi, il Kafue appunto. Le guide dicono che è grande come il Galles o il Massachusetts, e tu capisci solo che è immenso. Eccolo, finalmente, il grande nulla. Il bush è una distesa di erba gialla alta e secca, dove ti to animale, le cui tracce feline avevamo già studiato sull'apposito libro delle orme. «Rooarrrrr», e la muscolatura di tutti si contrae violentemente in un brivido. «E' lì dietro agli alberi», grida Daniela. Serafico replica il driver Felix: «Sarà a tre chilometri da qui». La savana ingigantisce ogni fruscio, figuriamoci il ruggito di un leone. La notte scorrerà di nuovo nel silenzio as- A Kubu in un albergo % di lusso completamente all'aperto, letti compresi Un ippopotamo sullo Zambesi l'erba gialla che si muove, non capisci il perché, ma ecco l'enorme bestia dell'identico fulvo colore, difficile metterla a fuoco, e non è sola, ce n'è un'altra, no, anzi, due. La prima leonessa è lenta, dinoccolata, allunga pigramente una zampata verso la solita faraona selvatica ma si capisce che lo fa solo prò forma, ha già la pancia piena, e finalmente ci porta fin dai piccoli: tre leonesse con nove cuccioli che si rotolano e fanno toilette. Avvoltoi a decine in cielo perché, si sa, il re degli animali qualche avanzo di carogna può sempre concederlo agli altri. Sanno benissimo che le stiamo seguendo, ma esibiscono una sovrana indifferenza. Ormai il gioco dura da quasi due ore, siamo animali protetti da una corazza di ferro allibiti di fronte al congegno naturale della forza assoluta. Altro che jumping, rafting, fishing... «Rooooaaarrrr». La prima leonessa si è voltata lentamente verso di noi, ci ha inquadrati bene negli occhi e ha emesso il più inequivocabile dei suoi messaggi: «Adesso basta, per favore, avete rotto abbastanza». Una leonessa nella savana L'incontro con il leone resta il culmine di ogni viaggio africano Nell'immagine a sinistra, un safari fotografico Un ippopotamo sullo Zambesi

Persone citate: Binga, Gad Lerner, Hegel, Kruger, Livingstone, Salisbury, Soweto