«Non vogliamo più protezione» di Fabio Albanese

«Non vogliamo più protezione» «Non vogliamo più protezione» Catania, i tre avevano parlato dell'attentato alla villa di Baudo CATANIA. Ieri mattina i poliziotti di Acireale e di Catania sono andati a casa di tre «collaboratori» e li hanno arrestati. Alfio Trovato, 40 anni, il nipote Mario di 34 e Sebastiano Pagano di 48 anni, subito dopo il loro arresto del giugno dello scorso anno nell'operazione «Ciclope», avevano svelato i retroscena dell'attentato alla villa di Pippo Baudo a Santa Tecla, indicando mandanti ed esecutori, accusando i vertici di Cosa Nostra catanese e i referenti della zona di Acireale guidati dal boss Sebastiano Sciuto. Si erano autoaccusati di omicidi ed estorsioni e avevano «ispirato» un'altra operazione antimafia, il blitz «Galatea», con decine di arresti. Ora i magistrati della direzione antimafia di Catania sono convinti che i tre avessero deciso di tornare nell'organizzazione mafiosa, «approfittando» ideile nuove regole inserite nella modifica dell'articolo 513 appena entrato in vigore. In pratica, dicono i magistrati catanesi, i tre avevano dato assicurazioni ai loro vecchi compagni di Cosa Nostra che non avrebbero ribadito al processo le accuse, che così sarebbero cadute. In cambio la mafia li avrebbe riammessi nell'organizzazione come figlioli prodighi; un «perdono», insomma. Così lasciano pensare i magistrati, che avrebbero prove inoppugnabili: i tre hanno deciso di ritornare ad Acireale dalle località segrete dov'erano sottoposti al programma di protezione, sei giorni dopo l'approvazione della nuova legge; Sebastiano Pagano, prima di rientrare, ha fatto e ricevuto telefonate con mafiosi del clan Santapaola, pare proprio per barattare il perdono con il suo silenzio ai processi. Secondo l'accordo, in aula il pentito si sarebbe avvalso della facoltà di non rispondere e avrebbe così impedito l'acquisizione delle dichiarazioni rese ai magistrati. Una strategia che avrebbe potuto far saltare numerosi processi di mafia, con centinaia di imputati, nei quali sono inserite le dichiarazioni dei tre. Sia Pagano sia i Trovato, rientrando ad Acireale, avevano comunicato di non volere più il programma di protezione dei pentiti ma di voler continuare a collaborare con la giustizia. Un atteggiamento che ha accentuato i sospetti, visto che fino a qualche giorno prima imo di loro aveva chiesto di cambiare l'alloggio segreto perché si sentiva minacciato. E invece, era tornato nella sua casa di sempre, portandosi dietro moglie e figli. I sostituti procuratori della direzione antimafia di Catania Mario Amato, Sebastiano Ardito e Nicolò Marino, non lo dicono apertamente ma sarebbe questa la prova che la nuova stesura del «513» ha dato, di fatto, una mano alla mafia. La pensa così l'avvocato Enzo Guarnera, che fino a ieri difendeva i tre pentiti e che ha subito annunciato di voler rinunciare al mandato: «Ciò che avevo previsto - dice Guarnera che è anche deputato regionale della Rete - comincia purtroppo a verificarsi. La scelta operata dal Parlamento è stata miope e superficiale perché non ha ritenuto di introdurre quei correttivi che sarebbero stati necessari per non rendere un favore alla mafia, più o meno consapevolmente. Sono deluso dalla politica dell'Ulivo in tema di giustizia». «Questo articolo del codice, così come modificato, opera come un pulsante con il quale è possibile far venire meno tutte le precedenti dichiarazioni - spiega il sostituto Ardito -; se prima i collaboratori avevano il potere di accusare le persone, adesso hanno un potere che è più ampio». E se, da Caltanissetta, gli dà ragione il procuratore aggiunto Francesco Paolo Giordano, autorevole esponente dell'Anni («i fatti di Catania dimostrano che gli appelli di più di un collega non erano catastrofici ma alla distanza si sono rivelati esatti»), da Roma il deputato di Forza Italia Marco Taradash attacca: «Sono magistrati indegni della loro funzione quelli che operano, attraverso le carte processuali, una speculazione politica contro il Parlamento e contro le leggi. Dovrebbero ringraziare questo articolo del codice ma per una parte della magistratura ormai disabituata ad indagare e a cercare riscontri, la confessione e la delazione sono l'unico strumento conosciuto e utilizzato. Questa parte della magistratura è pericolosa per la libertà». La replica del sostituto Marino: «Perché di fronte alle giornaliere aggressioni verbali, spesso fatte da chi nessuna cognizione ha delle carte processuali, dobbiamo continuare a subire per evitare fastidiosi procedimenti disciplinari? Penso sia giunto il momento per tutti di gettare la maschera, in modo che i cittadini possano capire». Fabio Albanese