Una prigione d'acqua per il Mosè di Rossini

A Pesaro il rifacimento francese dell'opera Una prigione d'acqua per il Mose di Rossini A Pesaro il rifacimento francese dell'opera Suggestivo allestimento di Graham Vick Michele Pertusi domina l'ottimo «cast» PESARO. Graham Vick ha trasformato il Palafestival per ambientarvi la prima rappresentazione italiana nel nostro secolo del «Moise et Pharaon» completo di tutte le pagine scritte da Rossini per la creazione parigina del 1827. Le pareti del palazzetto sono ricoperte da scaffali di libri che alcuni ebrei nerovestiti consultano, già prima che lo spettacolo inizi: immagine della cultura rabbinica che interpreta la tradizione e i fatti. Questi si svolgono sullo spiazzo centrale diviso in due parti: anteriormente l'orchestra, più indietro un'arena sabbiosa con una enorme piattaforma mobile su cui agiscono i personaggi. E' la sabbia del deserto che vede il dramma degli ebrei deportati. Ma siccome l'Egitto è anche terra d'acque, l'acqua riempie l'incavo di una pedana luminosa che abbraccia su tre lati orchestra e cantanti, isolandoli dal pubblico: è un anello che imprigiona chi è dentro, come il popolo d'Israele è imprigionato tra Nilo e Mar Rosso. Su questa pedana, con i piedi in acqua, i personaggi camminano, compiono lavacri, spruzzi gioiosi, con qualche eccesso di compiacimento ludico nelle brutte coreografie di Ron Howell. L'alta tecnologia dell'allestimento di Vick e dello scenografo Stefanos Lazaridis prevede come soffitto un enorme specchio inclinato che riflette e moltiplica le luci, in un chiaroscuro di riflessi azzurri. E quando lo specchio scende sulla pedana che si innalza a sua volta, nel buio, come schiacciando i personaggi, la mirabile scena delle tenebre acquista un effetto sorprendente. E l'Egitto monumentale? C'è, eccome, sul fondo della scena chiuso da scalinate bianchissime su cui sfilano le guardie nei costumi bianchi e d'argento. Ancora una volta, Graham Vick ha firmato uno spettacolo di tagliente lucidità e forza Michele Pertusi visiva, capace di modernizzare, senza tradirlo, lo spirito monumentale che, in ossequio ai gusti francesi, aveva improntato il rifacimento parigino del «Mose in Egitto». Anche se in tutto quello sfoggio di intelligenza artistica e tecnologica la scena madre del passaggio del Mar Rosso, in fondo, delude un poco: gli ebrei lo attraversano su una gigantesca carta geografica, e tanti saluti. Buona l'esecuzione musicale guidata dal giovane e promettente Vladimir Jurowski alla guida dell'orchestra del Teatro Comunale di Bologna, pungolata adeguatamente nel ritmo e ben ammorbidita nelle sonorità. Ottimo il coro da camera di Praga diretto da Lubomir Màtl. I cantanti formano una compagnia di alto livello, dominata dal Mose di Michele Pertusi cui si affiancano degnamente il tenore Charles Workman (Aménophis), il gorgheggiante sopranino Elisabeth Norberg-Sculz (Anai), la brava Mariana Pentcheva (Sinaide), tutti impegnati a rendere sia il bel canto italiano che la declamazione abbondantemente introdotta nel «Moise» rispetto al «Mose» di Napoli. Trasportata a Parigi, gonfiata di cori e danze, l'opera perde concentrazione, tenerezza melodica a favore di una monumentalità solenne e non priva di monotonia. Almeno, così pare a me, contrariamente alla opinione diffusa. Il primo Mose è molto più fantasioso, è come un capriccio fantastico di una invenzione zampillante, mentre il Mose francese mi pare costretto nella corazza severa dell'opera di ascendenza gluckiana. E se ad una verifica seria questa opinione terrà, vorrà dire che il Festival di Pesaro ha veramente rovesciato una visione critica stabilizzata da un secolo. Paolo Gallanti Michele Pertusi

Luoghi citati: Bologna, Egitto, Israele, Napoli, Parigi, Pesaro, Praga