Cinquant'anni fa la libertà

9 Era il 1947, a mezzanotte, la voce emozionata del premier annunciava l'indipendenza Cinquantanni fa, la libertà Ma il Paese di Gandhi e Nehru non c'è più E: NEW DELHI RA una notte come questa, una notte di agosto di cinquant'anni fa, quando l'India ebbe l'indipendenza. La proclamazione la fece allora Jawaharlal Nehru, con parole che la radio inviava solennemente fino alle frontiere di neve dell'Himalaya: «Allo scoccare della mezzanotte, mentre il mondo starà dormendo, l'India si sveglierà alla vita e alla libertà». I nati con il battito delle ore di quella notte fatidica, assicura un bel libro di Salman Rushdie, sono «I figli della mezzanotte» e hanno poteri magici, che bruciano la consistenza della realtà. Per farmi aiutare a trovare un «figlio della mezzanotte», in questi giorni ho messo un annuncio su un quotidiano di qui, il «Times». Erano soltanto poche righe, anche generiche, per non svelare nulla. «Cercasi uomo o donna nati nella notte del 14 agosto del 1947. Retribuzione adeguata». Quella notte di mezz'estate, l'India moderna nasceva con 300 milioni di abitanti e due padri fondatori, il Mahatma Gandhi e Nehru. La voce di Nehru, la stessa voce di quel giorno lontano, un po' gracchiante, un po' arrugginita dal tempo, vibra ancora ogni sera nell'aria afosa di Delhi, quando il baraccone tecnologico di «Sight and Sound» racconta la cronaca di un popolo e di una civiltà ai turisti che (monsone permettendo) affollano il vecchio Red Fort. «E' questo un momento che accade raramente nella storia, di quando il nuovo scaccia via il vecchio, di quando un'epoca finisce per sempre, e di quando l'anima di una nazione, a lungo repressa, finalmente si ritrova libera». Nel buio della notte, all'improvviso sulle rovine di pietra rossa appare il profilo di Nehru, proiettato come un'ombra cinese dal gioco di luci dello show. Ma cinquantanni sono passati, i 300 milioni di abitanti ora arrivano già a un miliardo, e i padri saggi di quel giorno lontano sono ormai soltanto un profilo di luce ingannevole, valgono quanto i fantasmi di un turismo di massa che qui cerca ancora la dea Kali e le Tigri di Mompracen. Quest'India di oggi, nemmeno i suoi padri saprebbero più riconoscerla: una rivoluzione silenziosa sta cambiando la faccia antica del continente. E ha sepolto Gandhi e Nehru. Volevo raccontarlo attraverso la storia di un «figlio della mezzanotte». Mi è arrivato un piccolo esercito di disgraziati, 38 uomini in tutto, e hanno anche sgomentato il portiere dell'albergo che pure è uno che ne ha viste tante. Una trentina di loro, già alla prima occhiata dei documenti si mostravano per quello che erano, truffatori di giornata, poveracci più che lestofanti, gente che arrangia la vita quotidiana con poche rupie e aveva letto nell'annuncio la possibilità di arraffare una piccola fortuna. L'intervista è stata corta, la mancia ha voluto rammentarsi della loro miseria più che premiarne la sfacciataggine. Gli altri 10 apparivano invece credibili, i documenti certificavano un'anagrafe non ingannatrice. Eppure, alla fine delle interviste ù quadernetto degli appunti aveva una raccolta sconsolata di memorie tutte uguali: la vita difficile nel villaggio lontano, l'arrivo poi nella grande città, la miseria da dimenticare, la conquista di una mediocre si¬ curezza. E la loro scalata sociale appariva sottolineata dalla conquista anche di una mobilità metropolitana che ne classificava il grado di successo: prima la bici, poi lo scooter, per qualcuno alla fine anche l'auto (la vecchia Fiat-1100 che qui chiamano «Premier») e, naturalmente, la tv a colori. Era soltanto un comune mestiere di Vivere, eppure, alla fine, mostrava di non tradire la sorte segnata dal loro destino. Rushdie aveva ragione comunque: la magia è questa, che i «figli della mezzanotte» sono gli eroi di un romanzo uguale per tutti, che cambia soltanto nell'apparenza dei nomi, delle facce, delle piccole cronache individuali. Però tutti loro davvero hanno il cuore e la storia intima dell'India, ne tracciano il percorso nel tempo, sono i protagonisti simbolici del suo progetto sociale. E, contemporaneamente, ne lasciano intendere anche una sua sconfitta. Per quarantacinque dei suoi 50 anni, l'India ha vissuto un'orgogliosa separatezza dal merca¬ to internazionale, progettando un sistema economico che potesse liberare il suo popolo «dalla miseria, dalla fame, dall'ignoranza» con un reinvestimento delle risorse che un settore pubblico egemone avrebbe guadagnato nel processo di sviluppo. I risultati non sono mancati: un indiano ha visto crescere del 125 per cento il proprio reddito, tra il 1950 e il 1992 (sono le bici e gli scooter dei miei «figli della mezzanotte»). Però oggi un cinese ha in tasca 4 volte in più di quanto aveva nel '50, un thailandese il 450 per cento in più, un sudcoreano il 1000 per cento, un cinese di Taiwan il 1160 per cento. E se quando Nehru lanciava nell'etere il solenne atto di nascita di un nuovo Paese, in quell'agosto di cinquant'anni fa, India e Cina avevano uno standard di vita uguale, o comunque simile, oggi la Cina ha un reddito doppio, e un trend di crescita ancor più marcato. Dice il prof. Rajni Kothari: «Noi non abbiamo fallito. Ma il nostro progetto è stato sconfitto dai fatti». E' questa qui, la sconfitta di Nehru (quanto a Gandhi, poi, che resta il padre spirituale della vecchia India in lotta per l'indipendenza, era stato comunque messo da parte già dallo stesso piano di industrializzazione che la nuova India si dava). Il processo di modernizzazione dettato da Nehru in quei primissimi Anni Cinquanta aveva immaginato un capitalismo di Stato che fosse poi redistributore di ricchezza per i poveri; ne è venuto invece un sistema elefantiaco e burocratico, simile a una Nomenklatura di regime, che ha drenato risorse ma ha anche favorito sprechi, privilegi, e diseconomie. Una piccola fattoria degli animali ha finito per creare gli uguali più uguali degli altri. La regolamentazione giuridica del lavoro ha una rigidità che protegge solo gli occupati, la cessazione di un'attività industriale è praticamente impossibile, e i dipendenti pubblici trasmettono «per eredità» a figli e parenti il loro incarico. Era quella, comunque, un'India ugualitaria e pauperista, costruita sulle memorie nehruvia- ne del socialismo fabiano. E la società aveva ima cultura omogenea, sobrietà e austerità erano i codici genetici di uno stile di vita comune a tutti. Uno sviluppo ugualmente non è mancato, la sua classe media che contava 30-40 milioni di persone, oggi ne raggruppa 200; ma i poveri erano un terzo della vecchia India del Raj, erano ancora un terzo nell'India illuminista di Nehru, e restano un terzo anche in questa nuova India postmoderna che si va aprendo al mercato obbligato della globalizzazione. Un model¬ lo di vita però è entrato in crisi. Per i «figli della mezzanotte» arriva la fine del loro tempo. La nuova India ha poco spazio per le magie. Fa i conti con il computer, usa software sofisticati, ragiona di Borsa con Tokyo e Singapore. Si confronta insomma con il mondo, alla pari, e scopre però quanto ritardo le tocchi ora ricuperare. Dice B, G. Verghese, direttore dei grandi giornali indiani: «La nostra colpa più grave di questi 50 anni è stata la mancata comprensione del ruolo fondamentale che l'istruzione di base ha per uno sviluppo durevole». L'India che si misura con l'Asia che ruggisce ha ancora il 50 per cento di analfabeti (67 per cento tra le donne); i suoi concorrenti diretti le sbattono in faccia numeri che suonano come schiaffi-, la scolarità della Cina è al 78 per cento, il Giappone al 94, la Corea del Sud al 96, la Thailandia al 93. Perfino la Birmania (80 per cento) e il Vietnam (88 per cento) la surclassano. «E senza un'istruzione di base, non c'è crescita», dice Verghese. L'India postmoderna, con metà della sua gente che non sa nemmeno leggere, ha anche il pili alto numero al mondo di ingegneri informatici. «E' una contraddizione vergognosa», dice il prof. Shenoy che dirige l'Istituto dei cambiamenti economici e sociali. La vecchia India del pauperismo si consentiva le isole del privilegio nell'oceano della miseria, ma questo era anche il prodotto di un contrasto che è irrisolto ancora oggi: un progetto di uguaglianza politica, tipico di una democrazia quale l'India ha voluto essere, e - di fronte - un sistema sociale invece fortemente iniquo, basato sulla sopravvivenza della divisione per caste. Gli scontri e i morti di queste settimane di anniversario sono un segnale inquietante. L'ostentazione di un consumismo che era estraneo a questa società della morigeratezza, e le tensioni che l'urbanizzazione di massa va creando nelle periferie estreme dei grandi conglomerati di vita, sono i due elementi che mettono a rischio un equilibrio prima considerato immutabile. L'India eterna dei 600 milioni che vivono perduti nei villaggi di una campagna povera, disperata, feudale, ora ha un televisore nel quale specchiarsi. E comincia ad avere difficoltà a riconoscersi. Il tempo cammina anche nell'India delle mille religioni e del Gange che lava l'anima eterna; lentamente, la rivoluzione silenziosa cambia il costume, e la società. Ma fin quando nei villaggi i Pariah, gli «intoccabili» della casta più umile, non potranno attingere l'acqua al pozzo comune, i «figli della mezzanotte» resteranno svegli a raccontare un sogno che ancora non è finito. L'altra mattina sono andato alla tomba di Gandhi, nella lastra di marmo nero che ricorda le sue ceneri. C'era un tappeto di petali freschi. Mi son tolto le scarpe, e mi son seduto per terra, sotto lo spesso arco di pietra. La gente arrivava, si toglieva le scarpe, si sedeva e si fermava a chiacchierare all'ombra, fuori dal sole che tagliava la pelle. Era l'India dei poveri, della gente senza storia e senza futuro; era l'India di Gandhi. Ma Gandhi è morto. Il traffico passava lontano, rumoroso, caotico. Indifferente. Mimmo Candito (4-FINE) I trecento milioni di abitanti di allora sono diventati un miliardo e l'utopia socialisteggiante è stata travolta dal mercato Il nuovo Paese tralascia la tradizione e fa i conti con le grandi Borse asiatiche Ma lo sviluppo vertiginoso della Cina resta un modello ancora irraggiungibile A destra, alla mezzanotte del 14 agosto 1947 il primo ministro Jawaharlal Nehru annuncia al mondo l'indipendenza dell'India 3 - Qui accanto Lord Mountbatten ultimo viceré dell'India e la moglie Lady Edwina insieme con il «Mahatma» Gandhi