India il miracolo della mezzanotte

21 Fra progresso industriale e miseria endemica, allo scoccare del 15 agosto si festeggiano i cinquantanni dell'indipendenza India, il miracolo della mezzanotte Così nel «Paese perenne» la cultura guarda al futuro EBENARES OMANI, allo scoccare dell'ora, i Figli della mezzanotte dell'ormai classico romanzo di Salman Rushdie compiranno cinquantanni, perché la mezzanotte del 14 agosto 1947 segnò l'ora della indipendenza dell'India, della fme del britannico Impero indiano. Et Parlaménto si riunirà per l'occasione in seduta speciale. Alla mezzanotte si spareranno colpi di cannone a salve e si osserveranno due minuti di silenzio. La mattina del quindici si alzerà ovunque il tricolore indiano. Qui a Benares, la città sacra sul Gange, la città eterna, avranno un significato tutto particolare le celebrazioni, per muglio dire la festa, poiché gli indiani amano le feste, dove senso mondano e alito religioso si fondono inestricabilmente. Non per questo cesseranno i pellegrinaggi, le immersioni nel fiume sacro, le cremazioni dei cadaveri, il viavai della gente, dai poveri miserabili pariah alla borghesia affluente. Si celebra il giubileo dell'indipendenza. Certo, ma non la nascita dell'India, della grande madre. Mi disse una volta un poeta indiano tra i più rappresentativi, Perthasagaray: non parlare mai di letteratura indiana contemporanea; l'India è perenne, e le distinzioni tra antico e moderno non hanno nessun senso. E un altro poeta e scrittore, Subramani, nato e cresciuto nelle Figi con immensa nostalgia per la patria remota: «Che cos'è l'India, la vera India? Il tempio e il fiume». Che India, allora, stiamo per festeggiare insieme? Un Paese immenso e sovrappopolato che guarda, nei suoi politici e nei suoi intellettuali più nazionalisti, quando addirittura non sciovinisti, al futuro con l'orgoglio di una potenza destinata ad assumere un peso sempre più solido nel mondo, ma che ha alle spalle e in parte anche nel presente contraddizioni, tragedie sanguinose, conflitti aspri. Tutto s'inizia, paradossalmente, proprio dall'Indipendenza, e la cosiddetta spartizione. Un successo amaro, perché il Mahatma Gandhi per primo, convinto che il bene supremo consista soprattutto nella libertà dal dominio britannico, subisce il distacco del Pakistan islamico caldeggiato dai più «politici» tra i capi del Congresso come l'influente Patel. E del resto rimane la ferita dell'esercito di Liberazione di Chandra Bose, che durante la guerra si era alleato con la Germania e il Giappone. Per il Mahatma vittoria mutilata Vittoria mutilata per il grande teorico della non violenza, perché la violenza più orrenda esplode, vittime soprattutto uomini, donne, bambini, con gli indiani che in colonne tentano di lasciare il Pakistan, e i pakistani aggrediti per rappresaglia in India. Nella stazione di Delhi arrivano treni che gocciolano letteralmente sangue. Che Gandhi, oltre alla sua ascetica personalità, fosse un politico, non v'è dubbio. Subì umiliazioni e in taluni casi si atteggiò persino, con ironia e per convenienza, a indiano anglicizzato: tipicamente britannico il suo gesto di estrarre dalla tasca l'orologio a catena, ciò che mai avrebbe fatto Nehru, il suo successore ed erede, ma culturalmente - si tenga a mente - il più autenticamente indiano. Il suo libro sulla «scoperta» dell'India (The Discovery ofIndia) rimane un testo cruciale e illuminante anche oggi. Come si sa, Gandhi pagò con la vita l'accettazione per lui così dolorosa del compromesso, poiché un estremista indù lo uccise nel '48; vittima sacrificale per eccellenza. La questione del Pakistan doveva rimanere bruciante, e portò alla fine cruente guerre. Nel '62 vi era stata l'aggressione cinese, un grave colpo per Nehru, che nella Cina confidava. E poi, una catena di scontri interni, specie con i Sikh, che sono purtroppo divenuti endemici. Ma si deve riconoscere che Nehru gettò le basi per dare alla nazione una struttura politica e, da quel grande intellettuale che era, una coscienza non particolaristica. Non per questo tornò la pace interna, ed ecco un altro assassinio politico, quello di Indirà Gandhi, la figlia di Nehru, salita al potere nel '66, seguito ancora dall'uccisione del figlio Rajiv. Dopo l'assassinio di Indirà, nell'84, seguirono tre giorni di autentici pogrom, durante i quali vennero sterminati almeno quattromila sikh. Molte luci, molte ombre che continuano a turbare il Paese, senza intaccarne la grandezza, senza frenare un interesse sempre crescente da parte dell'Occidente, trasformatosi spesso in banale moda. Oggi l'India - bisogna pur riconoscerlo - si «vende» bene, e una grande giornalista indiana, Gita Mehta, ha preso di mira la moda indiscriminata in un acuto libro che reca un titolo tanto originale quanto indicativo: Karmacola, a indicare appunto la mercificazione dell'apporto indiano specie nell'Occidente industrializzato e tecnologico. Ma la storia, a ben vedere, è antica, e naturalmente anche con ottime credenziali. Comincia, tutto sommato, con due nomi: l'angloindiano per eccellenza, Rudyard Kipling, nato a Bombay e che considerava con ironia l'Inghilterra il Paese straniero a lui più caro, e il pensatore, poeta, drammaturgo bengalese Rabindranath Tagore, nato nel 1861, morto nel 1941, Premio Nobel nel 1913. Tagore, tra l'altro anche musicista e cantante, educatore militante, rimane una personalità cruciale, anche se spesso tradotto malamente persino in inglese dal bengali. Meditazione, satira, umorismo; Tagore, che fu apprezzato da W. B. Yeats e da Ezra Pound, non era il profeta che l'immaginazione occidentale ha creato, così come Ki¬ pling non era, come banalmente si continua a ripetere, il cantore dell'imperialismo inglese, ma spesso l'opposto. Il filtraggio occidentale nuoce alle pure acque indiane, e le contaminazioni divenute correnti in Occidente hanno lasciato sedimenti alquanto equivoci. So di ferire i sentimenti e gli entusiasmi di legioni di entusiasti ammiratori, ma va detto con franchezza che il dolciastro, esotico indianismo di Herman Hesse, ad esempio, rientra proprio in una simile categoria. In compenso I vagabondi del Dharma di Jack Kerouac è stato accolto assai bene in India. Certo, la religiosità indiana, il suo misticismo, lo stesso principio di reincarnazione, la molteplicità spesso umana, se non proprio antropomorfa, delle sue divinità, possono esercitare un fascino irresistibile. Ma non bisogna arrestarsi a una consolante superficie, bensì andare a fondo; bisogna av- vicinarsi ai grandi testi sanscriti tuttora in circolo nel sangue della cultura e della vita indiana, dal Mahabarata ai Gita, i supremi esempi di epica che vanno affrontati con gli strumenti giusti (il film di Peter Brook tratto dal primo, ad esempio, sembra a me e a molti amici indiani, pur nella sua intensità, una trasfusione di India nella tragedia elisabettiana). Colpisce che molto di recente un grande scrittore israeliano come Abraham Yehoshua abbia invece saputo, in Ritorno dall'India, coglierne sottilmente il mistero. Tagore è stato seguito da una serie di poeti-saggi di straordinaria pregnanza: basta citare il nome di Sri Aurobindo. Ma negli ultimi due o tre decenni la letteratura indiana di lingua inglese ha segnato una singolare impennata, in quantità e spesso in qualità. Altro paradosso, se si vuole: l'inglese non è considerato lingua nazionale dalla Costituzione indiana, e nelle numerose lingue locali esistono autentici capolavori che purtroppo ci è dato raramente di leggere. Ai vertici collocherei ancora i tre grandi ottuagenari, Raja Rao, bramino coerente e narratore raffinato (di lui esiste in italiano Kanthapura, scrivendo il quale Rao fu dichiaratamente influenzato da Silone); R. K. Narayan, autore del memorabile ciclo ambientato nell'immaginario territorio di Malgudi, e di cui tutta una serie di romanzi sono stati pubblicati in italiano; Mulk Raj Anand, presente con Muntu in un vecchio volume della Bur rizzoliana. Narayan, tra l'altro, ha presentato con grazia e acume i grandi poemi epici indiani. Anita Desai, essa pure tradotta in italiano, rappresenta l'esempio più compiuto di scrittura femminile, e la sensazione dell'anno, in uscita da Longanesi alla fine di ottobre, sarà nuovamente una donna, che sta ottenendo un grande successo internazionale e qualche maliziosa critica in India, Arundhati Roy, con il suo primo romanzo, The God of Small Things. Coniughiamo altri due notevoli - e qualcosa di più - scrittori indiani di lingua inglese: l'ottantaquattrenne Kushwat Singh, il cui Quel treno per il Pakistan (Marsilio) è ormai un libro-culto, e ci riporta precisamente ai tempi della Spartizione, e il ben più giovane (potrebbe essere suo figlio) Amitav Ghosh cui si devono, tra l'altro, lo splendido Schiavo del manoscritto e Cromosoma Calcutta. Incalza una nuova generazione di livello magari diseguale, ma di indubbia, originale vitalità, fino al recente Adrani di Beethoven tra le mucche (Marsilio). Infine Rushdie, forse il più rappresentativo. Appartiene alla cosiddetta diaspora indiana, che ha lasciato la patria in giovane età e la vede con il filtro insieme della nostalgia, dell'ironia talora struggente, della critica appuntita. L'India, per salvarsi, ha sostenuto Rushdie in Patrie immaginarie, deve diventare secolare. Quale formidabile e forse illusoria speranza, questa di Rushdie. Il che spiega, accanto alle simpatie, le ostilità accese che ha provocato in India, lui che è riuscito a fondere il realismo magico caratteristicamente indiano con la grande tradizione narrativa inglese, a partire da Sterne, nei Figli della mezzanotte, in Vergogna, nei fatali Versi satanici. E a una doppia diaspora, in quanto figlio di trinidadiani di ascendenza indiana, è un altro gigante della narrativa di oggi, V. S. Naipaul. Il miracolo, se vogliamo chiamarlo così, della letteratura indiana di oggi sta precisamente nella fusione tra realismo e fantasia, nel riverberare nel personaggio il riflesso dei miti ancestrali, nel portare nella quotidianità Krishna di qualsiasi villaggio, ciò che appare ormai precluso alla letteratura occidentale. Ciò si applica anche al cinema indiano, che produce ogni anno centinaia di film (soprattutto a Bombay, definita correntemente Bollywood) spesso scadenti, ma talora di elevatissima qualità: pensiamo a Satyajit Ray. Spesso i prodotti più correnti esercitano un'influenza quasi ipnotica, e un attore, di nome Rao, che interpretava parti di divinità, venne eletto governatore di Stato grazie ai voti dei contadini che lo identificavano con i suoi ruoli, diventando uno degli avversari più temibili di Indhira Gandhi. Lo sport diventa politica Oggi sta dovunque esplodendo la televisione, in decine di lingue locali, pubblica ma anche, e sempre più spesso, privata. Le sole Tv Tamil dì Madras hanno un'audience potenziale di 70 milioni. L'anello di congiunzione tra il lascito britannico e l'indianità ò il cricket. Le recenti discussioni sul momento negativo della nazionale di cricket, alla vigilia dell'Asia Cup, hanno provocato scontri non meno accesi di quelli sulla endemica corruzione pubblica dei politici. Allora: cambiare i criteri di selezione, silurare l'allenatore, per converso arrestare e processare i politici? L'autorevole settimanale India Today ha commentato, tra il serio e l'ironico: «In India la politica è cricket e il cricket è politica». No: le celebrazioni non aboliranno la miseria, la endemica, insopprimibile corruzione di molti governanti, cui fa riscontro un consistente progresso industriale, mentre l'indice di alfabetizzazione rimane al di sotto del quaranta per cento. L'India è un fenomeno complesso, al quale dobbiamo qualcosa, ma non frequentando le scuole di yoga importate o affidandosi ai santoni di terza mano. Abbiamo un cordone ombelicale con quella cultura e quella civiltà, in un senso o nell'altro, a patto di penetrarla nella sua sostanza. Guardiamo con fiducia e speranza alla generazione dei nuovi Figli della mezzanotte, che stanno per nascere. Claudio Gorlier E nel cricket, lascito inglese e identità nazionale si sposano tra accese discussioni '// boom delle tv pubbliche e private in decine di lingue locali Non solo Rushdie: da Raja Rao a Ghosh una letteratura oggi di moda In alto Nehru e Gandhi, padri fondatori dell'India che festeggia domani la sua indipendenza dagli inglesi Sopra Salman Rushdie, forse il più interessante scrittore anglo-indiano di oggi. Qui accanto Kipling a sinistra il poeta Tagore